Intervista con il dott. Matthew Hansen, co-direttore del SDSU Geographic Information Science Center of Excellence
Negli ultimi anni si è verificata un’impennata nel numero di applicazioni e tecnologie satellitari per monitoraggio, il cui esempio forse più conosciuto dal grande pubblico è Google Earth, che permette a chiunque sia dotato di una discreta connessione internet di visualizzare immagini dallo spazio di quasi ogni angolo della terra. Queste nuove applicazioni stanno anche aiutando gli scienziati a monitorare in modo più efficace i cambiamenti ambientali, tra cui le fluttuazioni nelle configurazioni delle calotte polari, i mutamenti del plancton marino e la deforestazione. Un fattore importante che ha contribuito all’aumento dell’uso d’immagini satellitari è il Landsat Data Distribution Policy, una direttiva emanata dal governo statunitense che permette un accesso gratuito o a basso costo ai dati acquisiti dai satelliti Landsat. Questi satelliti raccolgono informazioni ad intervalli regolari dal 1972. Da allora il programma Landsat ha accumulato più di 630 terabyte di dati in un archivio che aumenta di più di 320 gigabyte al giorno.
Tuttavia il programma Landsat al momento non sta operando a pieno regime. Due satelliti si trovano attualmente in orbita: il Landsat 5, che ha già oltrepassato di più di vent’anni i tre anni previsti nel piano originale della sua missione, e il Landsat 7, il quale, nonostante abbia subito un guasto nel 2003 che sta compromettendo alcuni dati, continua tuttavia a fornire informazioni di grande importanza. I ricercatori che si occupano di telerilevamento, dunque, stanno aspettando con impazienza il lancio del Landsat Data Continuity Mission previsto per il 2012. Tale iniziativa “è destinata a raccogliere ed archiviare dati compatibili con quelli acquisiti dai satelliti Landsat precedenti”, secondo quanto afferma la NASA. Se però i satelliti attuali dovessero guastarsi prima di allora, gli scienziati si ritroverebbero con delle lacune nei dati utilizzati nelle loro ricerche.
Matt Hansen. Foto per gentile concessione del SDSU. |
La continuità è un aspetto cruciale. Il Landsat è particolarmente importante per i ricercatori che si occupano di monitorare i cambiamenti nella copertura forestale, specialmente quando si vuole costruire una serie temporale che funga poi da riferimento. Come sostiene Matthew Hansen, scienziato che si occupa di telerilevamento alla South Dakota State University, e uno dei maggiori esperti in monitoraggio della deforestazione, oggigiorno il principale fattore limitante nel tentativo di misurare accuratamente su scala temporale il progredire della deforestazione non è legato tanto agli algoritmi e alla potenza computazionale utilizzati per processare e analizzare i dati, quanto alla quantità di “osservazioni” o immagini catturate.
Hansen ci spiega che, se da un lato il sempre più crescente interesse nella protezione forestale sta richiamando nuovi investimenti nel campo dei sistemi di monitoraggio a distanza, sia da parte del settore pubblico che di quello privato, dall’altra il Landsat rimane importante perché dopotutto “è di lui che quasi tutti coloro che devono osservare vaste aree di territorio si servono, offrendo immagini acquisite sistematicamente e ad un prezzo inferiore.” Questo è vero soprattutto nella costruzione di serie storiche di riferimento nell’ambito del programma REDD – sigla che sta per Ridurre le Emissioni Da Deforestazione e Degrado (Reducing Emissions from Deforestation and Degradation) – che prevede la possibilità di elargire incentivi a paesi tropicali che proteggono e utilizzano in maniera sostenibile le loro foreste.
Nel corso di un’intervista svoltasi in maggio con Rhett Butler di mongabay.com, Hansen ha spiegato come lui utilizza il Landsat e altri sistemi per individuare zone di deforestazione.
INTERVISTA CON MATT HANSEN
mongabay.com: Qual è il suo background e come incominciò ad interessarsi a quello di cui si occupa ora?
Matthew Hansen: Dunque, ottenni il diploma di laurea in ingegneria elettrica, ma non mi piaceva un granché quel campo, così me ne andai ad allevare pesci con i Peace Corps in quello che allora si chiamava Zaire. Dopodiché rientrai e feci un master in geografia. Non sapevo quello che cercavo nella geografia, ma quando ritornai dai Peace Corps sapevo che mi piaceva la matematica, e vedevo lo spazio come un concetto eccezionale in cui uno può osservare aree enormi in modo del tutto coerente.
Il mio primo impiego, prima ancora di finire il dottorato, fu in un progetto di analisi di copertura territoriale su scala globale con l’Università del Maryland. Quando arrivai, avevano appena terminato la mappa di 1°: 365 x 180 pixels della terra. 1° allora era una cosa incredibile! E nel periodo in cui lavorai là (dieci anni) si scese velocemente a 8 chilometri, poi a 1 chilometro, 500 metri e 250 metri. Adesso puntiamo a scendere a 30 metri in un progetto di monitoraggio globale.
Davvero entusiasmante se ti piace la matematica!
mongabay.com: Sì. I progressi che si sono fatti in termini di alta risoluzione sono davvero incredibili. La maggiore disponibilità di dati è stata un fattore importante in questo?
Perdita di copertura forestale globale per bioma, 2000-2005. Grafico di Rhett A. Butler / mongabay.com. Clicca per ingrandire. |
Matthew Hansen: La vera scocciatura è stata quest’orribile normativa sull’utilizzo dei dati Landsat all’epoca in cui era privato. Una singola immagine costava 2000 dollari. Questo ha veramente rallentato il progresso scientifico. Ma adesso possiamo elaborare migliaia d’immagini, e presto cominceremo ad usare sistemi di cloud computing, che da un lato renderanno tutto più veloce, ma dall’altro cominceranno a scontrarsi con le limitazioni del Landsat. Conosciamo già le limitazioni concettuali del Landsat, ma adesso che possiamo accedere a ogni singolo pixel dell’archivio riusciremo a comprenderle meglio. Avremmo potuto capirle già 10, 15 o addirittura 20 anni fa, se non fosse stato per questa normativa sull’uso dei dati, che ha veramente rallentato le nostre conoscenze. Ma l’apertura poco più di un anno e quattro mesi fa ha aumentato enormemente le potenzialità nelle applicazioni del telerilevamento.
mongabay.com: Quindi, adesso che l’archivio è aperto, si possono utilizzare tutti i dati del passato?
Matthew Hansen: Fino a un certo punto. I dati provengono da sistemi diversi e ancora non è stato creato un sistema automatico per elaborare le immagini degli anni ’70, però le mappe tematiche sono tutte lì.
Tuttavia l’archivio presenta delle lacune se si va indietro nel tempo: per esempio mancano immagini della Siberia dei primi anni ’90, la copertura è irregolare. Dunque non riusciremo a ricostruire la storia in modo completamente sistematico, ma dovremmo riuscire a fare abbastanza.
mongabay.com: Ma c’è la possibilità di ricostruire la storia delle foreste in modo più dettagliato di quello che possiamo fare ora.
Matthew Hansen: Ah, sì! Senza dubbio, assolutamente! Solo che non sappiamo dove verranno a mancarci i dati. In futuro, comunque, i dati saranno buoni. Magari non sono sempre disponibili online, ma si possono ordinare. Dunque il periodo di attesa tra la richiesta e la ricezione di un prodotto si accorcerà e dovremmo riuscire a rimanere di più al passo.
mongabay.com: Sta lavorando o ha in programma di lavorare anche con dati provenienti da sensori non ottici, come ad esempio il LIDAR?
Perdita media annuale di foresta tra il 2000 e il 2005 come percentuale dell’estensione originale del bioma (piuttosto che dell’estensione della foresta nel 2000). Clicca per ingrandire. |
Matthew Hansen: Abbiamo cominciato con sensori AVHRR e poi siamo passati ai MODIS, i cui dati si combinano molto bene con quelli di Landsat. Io penso che in futuro si lavorerà combinando dati di varia provenienza. Stiamo testando dati da Landsat con dati da GLAS, il LIDAR che si trovava sull’IceSat, ideato per monitorare i ghiacci. In futuro dovremo usare molta creatività, utilizzando e combinando in modo efficace informazioni provenienti da fonti differenti: MODIS, Landsat, LIDAR. Dovremo utilizzarle tutte.
Il punto fondamentale è che tutti questi sistemi hanno strategie di acquisizione globali. L’accesso ai dati deve essere facile e gratuito. Ogni volta che si cerca di commercializzarlo, il costo del monitoraggio ambientale cresce enormemente.
MODIS e Landsat hanno grosse strategie di acquisizione. I dati non sono i migliori, ma sono gratuiti.
E poi sa, secondo noi il valore sta nelle applicazioni, non nella vendita di questo o quel dato. Inoltre se vogliamo realmente monitorare il clima o implementare il REDD, ci servono dati. Uno non può semplicemente dire “sono a posto, ho comprato dati da SPOT per anni e anni da usare per il mio progetto REDD.” E allora i dieci anni precedenti? E i dieci anni successivi? Ci vuole un sistema che riceva e incanali dati regolarmente, senza doverli richiedere di continuo.
Questo è quello che penso debba accadere, specialmente con il REDD. Perché se un paese come la Cambodia vuole fare qualcosa di simile a quello che la Guyana sta facendo, ma senza avere la stessa serie di dati, allora lì c’è un punto di rottura.
Pensi agli ingegneri che negli anni ’60 idearono il Landsat. Mi si può venire a dire che parte della tecnologia del Landsat è stata migliorata nel tempo, certo, ma è sempre lo stesso. È sempre la stessa cosa! Stiamo ancora usando un singolo Landsat dopo 30-40 anni! Dico io, ma perché non ne abbiamo cinque di questi Landsat? Riceviamo immagini del Congo ogni 16 giorni e nel 70% ci sono solo nuvole!
E se avessimo tempi di passaggio diversi – ovvero tempi di acquisizione diversi – e molti di più? Se potessimo riprendere il mondo a 10 metri di altezza ogni giorno? Sarebbe fantastico! Sto sognando adesso, ma caspita, potremmo avere rilievi terrestri giornalieri utilizzando uno di questi satelliti.
Penso che questa sia la direzione in cui si debba andare.
mongabay.com: Secondo lei, se il REDD diventasse realtà e attirasse un sacco di soldi, questo porterebbe allo sviluppo di satelliti riservati al monitoraggio della deforestazione? O perlomeno di sensori mirati a rivelare deforestazione e degrado forestale? Che cosa prevede che succederà nel prossimo futuro in termini di crescita nella quantità di dati?
Perdita totale di foresta (per cause naturali e deforestazione) negli Stati Uniti, Cina, Brasile e Russia, 2000-2005. Grafico di Rhett A. Butler / mongabay.com. Clicca per ingrandire. |
Matthew Hansen: Uno degli aspetti del REDD è che c’è così tanto denaro e così tanta gente che vuole approfittarne per arricchirsi, che potrebbe diventare un modello commerciale. Questo però rischia di farci ricadere nelle classiche trappole dei modelli commerciali.
Io comunque non me ne intendo di politica e non sono un’economista, non ho idea di cosa ne verrà fuori. M’immagino però che se qualche società comincia a versarci dei soldi, inizieranno a dire “Adesso ci troviamo di fronte ad un modello che coinvolge del denaro e quindi non intendiamo rendere i dati disponibili gratuitamente. Torniamo indietro e cerchiamo di farne un progetto a scopo di lucro, cosa che prima non potevamo fare.”
Come dicevo, se si guarda alla faccenda in modo circoscritto, potrebbe anche funzionare. Se, però, se ne considera l’obiettivo principale, che è piuttosto di ampia portata, di scala globale, o anche solo tropicale, accessibile a tutti – uno dei presupposti base del REDD – io sostengo che questo modello sia destinato a fallire miseramente.
Sicuramente ritengo che ci sarà chi cercherà di spingere in quella direzione, ma io sono convinto che il valore stia nelle applicazioni e il fornitore che sarà in grado di distribuire dati dappertutto si rivelerà di grande utilità. Lasci che le faccia un altro esempio: rispetto a SPOT, Landsat, pur non essendo mai stato gratuito sino a oggi, è sempre stato notevolmente più economico e acquistato dagli utenti con regolarità. Ora, guardiamo agli europei: nonostante SPOT sia un’iniziativa dell’ESA (l’Agenzia Spaziale Europea) e si trovi proprio lì, le loro principali mappe del territorio sono state create usando Landsat. Le immagini SPOT costano di più e quindi è più difficile che vengano usate. Per questo motivo, quasi tutti coloro che devono guardare ampie porzioni di territorio utilizzano Landsat, perché costa meno ed ha una periodicità di acquisizione regolare.
mongabay.com: Il sistema adottato dall’ESA è principalmente il risultato di una questione politica?
Matthew Hansen: È una questione politica. SPOT è un ente privato e i loro dati sono semplicemente più difficili da ottenere. La normativa sulla condivisione dei dati di SPOT non contribuisce alla ricerca: se compri un’immagine da SPOT, non ti è consentito distribuirla, se invece la acquisti da Landsat è sempre stato che puoi condividerla con chiunque. Così almeno era in passato, non sono sicuro se sia cambiato qualcosa. Tuttavia SPOT fa sapere che le cose cambieranno con la nuova serie di satelliti Sentinel, che saranno dotati di radar, di strumenti simili a quelli di Landsat e di un paio di altri congegni, il tutto accessibile e gratuito. Il che è fantastico! Questo magari spingerà altri a fare lo stesso.
mongabay.com: E ALOS?
Matthew Hansen: Per quel che riguarda i radar, ALOS è il sistema al momento più innovativo in termini di accessibilità dei dati, ma c’è ancora un certo costo associato.
MODIS e Landsat sono i più accessibili per dati a media risoluzione. SPOT Vegetation fornisce dati disponibili gratuitamente ma la risoluzione è di 1 chilometro.
Stime di estensione e di perdita di copertura forestale a livello nazionale e sub-nazionale. S-K comprende i gruppi di isole di Sumatra e Kalimantan. J-N-S-M-P include i gruppi di isole di Java, Nusa Tenggara, Sulawesi, Maluku and Papua. Foto per gentile concessione di Hansen et. al. 2009.
mongabay.com: Per quanto riguarda il REDD, Landsat fornisce anche l’archivio.
Matthew Hansen: Esattamente. Specialmente se si stabilisce di usare gli anni ’90 come scala di riferimento.
Abbiamo dei risultati preliminari relativi ai tropici umidi negli anni ’90.
E abbiamo il periodo 2002-2005. quest’estate processeremo il periodo 2005-2007. Ma la serie per il 2000-2005 sarà tutta concentrata sui tropici umidi, come le foreste pluviali.
mongabay.com: Dunque cosa sta emergendo riguardo alle cause della deforestazione per il periodo coperto dal vostro studio?
Matthew Hansen: Usiamo un processo basato su metodi stocastici, con zone campione dei tropici umidi. Ancora non ci siamo occupati delle dimensioni delle zone disboscate (a causa del guasto verificatosi con lo Scan Line Corrector del Landsat 7 nel 2003), ma è un argomento importante. Utilizzando tali campioni potremmo stabilire la percentuale di zona disboscata a favore dei “grandi”, ovvero l’industria alimentare che nutre il mercato globale, e riconoscere il tipo di cambiamenti legati a questo tipo di agricoltura piuttosto che a quella basata sul debbio.
mongabay.com: Ha toccato questo argomento in un recente articolo con Tom Rudel and Ruth DeFries, riportando che si è verificato un passaggio da un’attività di disboscamento su piccola scala a una di tipo intensivo e industriale, dove enormi aree di territorio vengono deforestate per far posto a piantagioni, pascoli e aziende agricole meccanizzate.
Matthew Hansen: È proprio così. Abbiamo riscontrato questa tendenza in Brasile, Paraguay, Argentina, Malesia e Indonesia. Il livello d’interferenza è incredibile. Tuttavia non si osserva lo stesso fenomeno in Africa, perlomeno non ancora.
mongabay.com: Allora che differenze avete osservato, diciamo tra gli anni ’90 e il periodo 2000-2005, nel sud-est asiatico (Indonesia e Malesia, e magari anche altrove)?
Matthew Hansen: Beh, per quel che riguarda l’Indonesia, abbiamo una storia interessante ma che non sorprende più di tanto. Quel che si è visto negli anni ’90 è incredibile, con gli incendi del 1997-1998 e la chiara intenzione da parte del governo centrale e del settore del legname di appropriarsi delle foreste in pianura per creare piantagioni di palma da olio.
Poi, verso la fine degli anni ’90, ci fu un grande sconvolgimento economico e, infatti, Suharto fu costretto a lasciare il potere. Nel nostro segnale da MODIS si vede un leggero cambiamento a cavallo del secolo e poi una crescita graduale. Sul periodo aggregato, diciamo dal 2000 al 2005, la media è inferiore che negli anni ’90. Insomma, è un po’ come osservare i postumi degli sconvolgimenti economici e politici sopra citati.
Poi, però, la deforestazione ha cominciato ad aumentare di nuovo, arrivando a più di un milione di ettari l’anno a metà dell’ultimo decennio.
Area campione da Landasat relativa a Riau, Indonesia (coordinate: 0.42° N, 102.25° E). L’immagine in alto a sinistra è stata catturata da Landsat il 21-05-2000, mentre l’immagine in alto a destra risale all’ 11-11-2005. L’immagine in basso a sinistra mostra i cambiamenti nella copertura del suolo, dove le zone in rosso rappresentano la perdita di foresta. |
Rilevare la deforestazione in Indonesia è molto diverso che in Brasile, dove, grazie all’assenza di nuvole nel periodo di luglio e agosto di ogni anno, è possibile osservare l’andamento annuale. In Indonesia è più difficile fare lo stesso, a causa della nuvolosità, quindi siamo costretti a usare MODIS, ottenendo una misura dei cambiamenti meno precisa. Usiamo Landsat su un periodo più lungo, per esempio tra il 2000 e il 2005, e poi disaggreghiamo le informazioni per anno con l’aiuto di MODIS.
In alcune di queste zone, come a Sumatra, le foreste planiziali si stanno quasi completamente esaurendo. Secondo una delle nostre stime, tra il 1995 e il 2005 un’area gigantesca di queste foreste è stata abbattuta a Sumatra (il che significa che stanno letteralmente sparendo) e adesso stiamo osservando tagli nelle foreste in zone più elevate, sulle colline.
Eppure il fenomeno è complesso e difficile da spiegare. Per esempio, la Malesia non segue lo stesso andamento. In questo momento non dispongo dei dati relativi a questo paese, ma finora non abbiamo osservato interruzioni improvvise del disboscamento, come in Indonesia: l’andamento è stato piuttosto consistente sin dal 2000.
mongabay.com: Siete in grado di distinguere tra piantagioni di palma da olio e foreste originarie quando ricevete i dati dal satellite?
Matthew Hansen: Abbiamo escluso dai nostri calcoli le dinamiche delle piantagioni di palma, principalmente perché quando gli alberi sono maturi appaiono come foresta naturale. In pratica usiamo una sola definizione di foresta. Stiamo lavorando per inserire più dati a livello temporale, in modo da avere una cronologia dei pixel raccolti, che mostri per esempio come in un punto ci sia stato un taglio nel 2000 e poi di nuovo nel 2010 (secondo il ciclo, insomma), sicché in futuro, per zone come l’Indonesia, servendoci di dati Landsat, potremo conoscere i cicli delle piantagioni di palma e delle foreste da legname. Vede, questo renderà possibile creare una mappa dell’impatto. Finora quello che potevamo fare era guardare un’immagine e dire “devo mapparla”, ma abbiamo bisogno di dati storici relativi a determinati pixel. Questo è ciò che ci permetterà di differenziare i dati in base all’utilizzo del suolo, ma al momento non siamo in grado di distinguere tra zone di palme adulte e foreste.
Se concentriamo i nostri sforzi su Sumatra, sono abbastanza sicuro che possiamo mappare il territorio e distinguere le foreste da legname dalle piantagioni di palma, dalle foreste primarie e da quelle primarie degradate.
Tuttavia è molto più difficile lavorare sull’Indonesia che sul Brasile. È molto nuvolosa, la topografia è accidentata, e, dopo il taglio degli alberi, la foresta si riforma in modo diverso. È davvero molto diverso dal Brasile. Ed è triste, perché zone cruciali di foresta a Sumatra e Kalimantan stanno scomparendo.
mongabay.com: Avere una storia per pixel, però, non risolve il problema delle nuvole, giusto?
Matthew Hansen: Beh, sì. La questione della nuvolosità influisce sulla frequenza con cui possiamo fare delle affermazioni con una certa confidenza. Se l’immagine che riceviamo è scadente, posso affermare quello di cui abbiamo parlato prima? No. Di quante immagini avrò bisogno per poterlo fare? Quante osservazioni per pixel di territorio mi serviranno? Questo è il problema e non sono molto sicuro di quanto ci s’impiegherà a risolverlo.
La questione ci riporta alle limitazioni legate al fatto di avere un solo Landsat, per giunta non completamente funzionante. Un Landsat non è sufficiente per rapidi aggiornamenti di questi tipi di dinamiche.
mongabay.com: Riguardo al Congo, cosa avete scoperto in termini di dinamiche?
Matthew Hansen: In Congo si può osservare l’impatto causato dall’instabilità politica e dalla guerra perfino dallo spazio. Come successe in Angola e in Mozambico negli anni ’80 e ’90, la guerra ha lasciato il Congo praticamente isolato rispetto all’economia globale. Strutturalmente le foreste di questi paesi quasi non sono state toccate durante i lunghi periodi di cruenta guerra civile.
A differenza del Congo, la Malesia, l’Indonesia e il Brasile sono economie di mercato stabili e democratiche, integrate con il resto del mondo, e portano avanti investimenti su scala industriale che vanno a sfruttare le foreste per ricavarne legname su larga scala e trasformarle poi in terreni agricoli. La Cargill non costruisce porti e infrastrutture nel bacino del Congo. Sarebbe difficile comunque, data la natura sfavorevole del territorio, ma se ci fosse stabilità politica, di sicuro ci sarebbero un sacco di opere di sviluppo e di infrastrutture in corso. Si sta già cominciando a sentir parlare di grandi progetti agricoli, con società cinesi e del Sudafrica interessate alla coltivazione di palma e di soia.
La trasformazione delle foreste in Congo è attuata quasi completamente da piccoli contadini. Si tratta di un fenomeno pervasivo a livello territoriale, come un contagio che si muove lungo le strade costruite per il trasporto del legname. È come un bordo rosicchiato dai tarli verso l’interno della foresta. Questa è la dinamica principale.
The other big activity is selective logging, which is not a capital-intensive investment and doesn’t leave much of a signature—spatially—on the forest. The loggers build their roads, log their trees, and then get out. But the impact can be huge on biodiversity since these companies attract workers who hunt wildlife in the forest and the roads provide access for settlers. So you see villages popping up where there were never villages before. But aside from these effects, after the companies pull out, the area is still forest. With Landsat you can’t see the one tree per hectare they are pulling out of the forest in the northern Republic of Congo—especially with all the clouds.
Dunque l’intensità con cui la struttura della foresta viene modificata nel bacino del Congo è molto diversa rispetto ad altri luoghi, come in Brasile o in Indonesia, dove le zone deforestate vengono occupate da un’agricoltura su scala industriale e da fattorie. A Sumatra uno deve cercare a lungo prima di trovare una foresta che non è stata ancora intaccata, e solitamente la trova in alto, sulle colline.
mongabay.com: Si riescono a distinguere le strade costruite per il trasporto del legname con Landsat?
Matthew Hansen: Sì, in Congo le fanno piuttosto larghe, così ricevono sole e rimangono asciutte. Bisogna catturarne l’immagine appena costruite, perché poi la ricrescita le oscura.
Abbiamo appena sorvolato un’area data in concessione 15 anni fa e dallo spazio si potevano ancora vedere le strade del legname, che formavano un contrasto molto luminoso con la foresta circostante. Tuttavia la monocoltura arborea cresciuta lungo i cinquanta chilometri di strada si distingueva a malapena dalla vecchia foresta. Sarà stata più bassa di appena un metro. Adesso le strade per il trasporto del legname rimangono l’unica traccia della conversione.
mongabay.com: Però se aveste questa serie storica di valori dei pixel potreste dire che quell’area è stata disboscata e adesso è coperta da un nuovo manto forestale o da una piantagione, giusto?
Matthew Hansen: Sì, esattamente.
mongabay.com: Com’è esattamente la vostra metodologia nella mappatura della foresta? Pare che lavoriate molto a campione.
Matthew Hansen: Non facciamo solo campionamenti: stiamo mappando da cima a fondo il bacino del Congo, così come abbiamo fatto per Kalimantan e Sumatra. L’unico motivo per il quale iniziammo con campioni è che l’archivio non era stato ancora aperto quando cominciammo lo studio.
Disponiamo di dati MODIS per una mappatura globale. MODIS è in grado di indicare anche un singolo albero che venga a mancare e possiamo adottare un campionamento stratificato, richiedendo poi le relative immagini Landsat. Tuttavia anche con un archivio aperto ci sono buone ragioni per scegliere il campionamento: è veloce e piuttosto accurato. In più presenta una buona misura di certezza, il che non è sempre il caso con la mappa, che richiede un intenso lavoro di convalida per scartarne gli errori. Strano oggetto, la mappa.
In ogni caso, si tratta di un compromesso: con il campionamento non si ottiene una mappa ma una stima su una certa area.
In questo momento stiamo concentrando quasi tutti i nostri sforzi sulla mappatura completa di Kalimantan e Sumatra, eseguendo un massiccio data mining su un archivio di 7000 immagini relative a queste aree tra il 2000 e il 2009. Abbiamo automatizzato tutti i processi di riconoscimento di pixel contaminati da nuvole o ombre, per stabilire se la foresta è cambiata oppure no. È eccezionale: c’è tutta una nuova disciplina che si occupa di come gestire queste distribuzioni discontinue di osservazioni. Nuova ma piuttosto affidabile.
La sfida, dal punto di vista tecnico, è riuscire a mantenere una certa accuratezza nel trasferire i dati da un piccolo campione ad una valutazione su scala nazionale. Mentre da un lato la caratterizzazione di una piccola area può risultare facile, dall’altro estenderne i valori all’intero paese utilizzando un processo automatico può rivelarsi problematico, specialmente se ci si muove all’interno di una regione dove le dinamiche nell’utilizzo del suolo possono variare. Per esempio, se utilizzo un prodotto Landsat globale, potrei perdere qualcosa.
mongabay.com: Se si cambiasse la definizione di foresta, sarebbe un problema? Nelle vostre pubblicazioni più recenti sembrate adottare una definizione di foresta molto più rigida rispetto a quella, ad esempio, usata dalla FAO. Lo fate per consistenza con il tipo di dati che utilizzate?
Matthew Hansen: La FAO finora ha proposto qualcosa come 850 definizioni diverse di “foresta”. Se non usano una soglia del 10%, posti come il Kazakistan risulta senza foreste.
Non so se la loro definizione è basata su una rappresentazione biofisica della foresta o se è il riflesso di una scelta politica.
Sulla stessa linea d’onda, anche noi abbiamo motivazioni specifiche: vogliamo mappare qualcosa che possiamo vedere dallo spazio in modo regolare nel tempo. Se si usa la definizione dove la copertura arborea minima è del 10%, la gran parte del segnale viene dallo sfondo (suolo o quant’altro), il che complica la situazione. Per esempio, l’Australia al momento si trova in difficoltà nell’applicare la definizione della FAO. Sono convinti di poter mappare almeno il 20/25% della copertura forestale utilizzando un semplice approccio tradizionale, ma applicando la definizione del 10% di copertura arborea stanno facendo i salti mortali con test di tessitura e altro. E ancora non sono riusciti a provare nulla. Quindi, in termini tecnici, applicare la definizione del 10% è molto difficile.
L’altra questione è legata all’applicazione, ad esempio se si parla di carbonio. Se usiamo una definizione di foresta di 2 metri di altezza, allora tutto il Botswana risulta essere una foresta. Se invece usiamo una definizione con il 10% di copertura arborea e 2 metri di altezza, allora a quel punto anche Jakarta è una foresta!
Non so qual è la risposta migliore, ma noi continuiamo ad usare una definizione di foresta che ci permetta di osservarla per un certo periodo di tempo, ovvero 5 metri di altezza delle piante e 25% o più di copertura arborea. Con una definizione così possiamo riportare dinamiche con una certa sicurezza.
mongabay.com: Il vostro studio recente sulla perdita globale di copertura forestale ha sollecitato alcune risposte forti, soprattutto in paesi che possiedono foreste temperate. Come rispondete alle critiche secondo cui la perdita globale di foresta non tiene conto della ricrescita e delle pratiche di gestione delle foreste industriali?
Matthew Hansen: Ah sì, alle guardie forestali proprio non è andato giù! Ci chiedono “Perché mai dite che la copertura delle foreste sta cambiando?” Secondo loro se una foresta viene abbattuta e poi ripiantata è come se non cambiasse niente.
Non è lo stesso tipo di cambiamento che sta avvenendo in Brasile. Ma sono sicuro che il ritmo del cambiamento nel tempo vari dai periodi di benessere a quelli di crisi: se costruissimo più case quaggiù negli Stati Uniti taglierebbero più alberi in Canada. Ma chi si occupa delle foreste ti dirà sempre che, siccome gli alberi vengono ripiantati, il tutto è sostenibile, e così non riportano mai alla FAO nessun cambiamento nelle loro aree, risulta sempre zero.
Ci sono mappe delle foreste in tutti gli altri posti del mondo, ma in Canada e negli Stati Uniti “sembra che non succeda mai niente”. Un po’ strano, no?
Possiamo cavillare finché vogliamo, ma alla fine dobbiamo guardare alla realtà e chiederci: Dove sono gli alberi? Dov’erano prima? Dove non ce n’erano? Tutto qui. Poi un può dire che è sostenibile, può dire quello che vuole.
mongabay.com: Nella regione boreale, però, sia in Canada che negli Stati Uniti, ci sono stati molti cambiamenti che non sono necessariamente il prodotto diretto di un’attività di deforestazione.
Matthew Hansen: È vero, sia gli incendi che i coleotteri lasciano tracce che generano un segnale forte.
mongabay.com: È facile distinguere tra ciò che è causato dal fuoco e ciò che è causato dagli insetti?
Matthew Hansen: Anche in questo caso non facciamo distinzioni, però abbiamo compiuto uno studio parallelo in cui abbiamo aggregato la porzione dovuta agli incendi, che incide per il 60%.
Area deforestata con la tecnica cosiddetta “a spina di pesce” nella foresta amazzonica brasiliana, 2006.
Area deforestata per far posto a piantagioni di palma da olio nel Sarawak, Borneo Malese, 2006. Tutte le immagini per gentile concessione della NASA. |
L’altra domanda è: “Qual è la tendenza in questi tipi di dinamiche?”. Anche se i coleotteri e gli incendi sono naturali, sono almeno in parte influenzati dal cambio climatico. Il problema dei coleotteri è legato al fatto che la temperatura minima durante l’inverno non è abbastanza fredda da ucciderli e tenerne così controllato il numero. Si tratta di un problema endemico a tutta la regione, ma può essere che l’inverno più mite del Canada abbia contribuito alla loro diffusione.
Temperature più alte possono portare a cambiamenti anche nelle dinamiche degli incendi. Non sto affermando che sia successo oppure no, ma se compissimo degli studi che seguano le dinamiche di malattie e incendi nel tempo, allora potremmo dire se questi fenomeni possono essere ricondotti a qualche azione dell’uomo. Servono le osservazioni, però.
mongabay.com: Cosa si può fare per migliorare l’intero sistema così da renderlo più efficace per capire cosa sta succedendo con le foreste del mondo?
Matthew Hansen: Uno dei punti fondamentali è rappresentato dalle osservazioni: ci servono più immagini.
Penso che per prima cosa l’apertura degli archivi porterà ad una maggiore comprensione generale. Senza dubbio saremo in grado di fare campionamenti a sufficienza su periodi di 3-5 anni con una gamma di prodotti, il che è stupendo. Credo che faremo enormi progressi per quanto riguarda le questioni più generali, d’insieme, come la comprensione delle variazioni percentuali relative.
Tuttavia, se si vuole indagare più a fondo in intervalli di tempo più significativi, ricevere aggiornamenti più rapidi o, meglio ancora, prodotti più accurati, allora ci vogliono più osservazioni di alta qualità.
Questo significa gruppi di sensori simili. Come sa, Landsat non è molto di aiuto nel caso di disboscamento selettivo: per quello ci vogliono immagini raccolte giornalmente e con una risoluzione di meno di dieci metri. Sarebbe semplicemente fantastico se potessimo disporre di questo! Saremmo in grado di comprendere davvero molto di più se avessimo a disposizione immagini con tale frequenza e di tale qualità.
Penso che gli algoritmi e la potenza computazionale che possediamo ora siano sufficienti per processare questo tipo di insiemi di dati.
Selezione di articoli di Matthew Hansen a cui si fa riferimento nell’intervista:
- Hansen, Matthew C.; Stehman, Stephen V.; and Potapov, Peter V. Quantification of global gross forest cover loss. PNAS. www.pnas.org/cgi/doi/10.1073/pnas.0912668107.
- Matthew C. Hansen at al. (2008). Humid tropical forest clearing from 2000 to 2005 quantified by using multitemporal and multiresolution remotely sensed data. PNAS July 8, 2008 vol. 105 no. 27 9439-9444.
- Ruth S. DeFries, Thomas Rudel, Maria Uriarte and Matthew Hansen. Deforestation driven by urban population growth and agricultural trade in the twenty-first century. Nature Geoscience. published online: 7 February 2010 | DOI: 10.1038/NGEO756
- Matthew C Hansen, Stephen V Stehman, Peter V Potapov, Belinda Arunarwati, Fred Stolle and Kyle Pittman (2009). Quantifying changes in the rates of forest clearing in Indonesia from 1990 to 2005 using remotely sensed data sets. ENVIRONMENTAL RESEARCH LETTERS. Online at stacks.iop.org/ERL/4/034001