La superficie di ghiaccio marino tocca il minimo storico il 26 agosto. Immagine per gentile concessione dell’ente statunitense National Snow and Ice Data Center (NSIDC).
Lo scioglimento del ghiaccio marino nell’Artico durante la stagione estiva, una delle conseguenze più visibili del cambiamento climatico, ha ora raggiunto livelli record. Alcuni scienziati del National Snow and Ice Data Center (NSIDC), l’ente statunitense che si occupa di monitorare lo stato dei ghiacciai e delle aree polari, hanno annunciato che dal 26 agosto l’attuale superficie della banchisa artica è sprofondata al di sotto dei livelli registrati nel 2007. Questo record acquista maggior peso in quanto è stato raggiunto a più di due settimane dalla data prevista per la fine della stagione di scioglimento ed è quindi molto probabile che il precedente record negativo non venga solo superato ma addirittura abbattuto.
“La continua fusione della copertura di ghiaccio perenne, resistente alla stagione di scioglimento, ha portato a questa diminuzione estiva senza precedenti”, spiega in un comunicato stampa Joey Comiso, ricercatore e scienziato presso il Goddard Space Flight Center della NASA. “A differenza del 2007, non abbiamo assistito a picchi di calore inaspettati quest’estate nell’Artico”.
Stando alle rilevazioni del 26 agosto, la superficie marina artica ha toccato quasi i 4,1 milioni di chilometri quadrati, cifra che per il momento supera di 700.000 chilometri quadrati il record del 2007. Sebbene le prime misurazioni satellitari del ghiaccio marino risalgano al 1979, secondo una recente ricerca condotta su modelli l’attuale contrazione della banchisa non trova precedenti per lo meno negli ultimi 1.450 anni.
Negli ultimi decenni, la graduale scomparsa della banchisa artica è avvenuta più velocemente di quanto gli scienziati non avessero predetto. Non molto tempo fa avevano avanzato l’ipotesi che il ghiaccio artico si sarebbe sciolto completamente entro l’estate del 2100 ma considerata l’inaspettata velocità del tasso di scioglimento la data era stata anticipata al 2050. Ad oggi, alcuni ricercatori non negano la possibilità che la scomparsa definitiva dei ghiacci artici si verifichi entro la fine del prossimo decennio, se non dell’attuale. Un avvenimento senza precedenti, almeno negli ultimi 2,5 milioni di anni.
“Sono solo cifre e non sempre si arriva a toccare il limite. Tuttavia, se prendiamo in considerazione gli accadimenti degli ultimi anni e i dati satellitari, queste cifre ci indicano che la calotta glaciale artica sta subendo dei cambiamenti notevoli”, afferma Walt Meier, scienziato del NSIDC. Secondo quanto riportato dall’ente, è dal 2007 in poi che si sono registrati i sei anni di maggior contrazione della banchisa.
È molto probabile che la riduzione della banchisa artica abbia un enorme impatto sulla flora e fauna regionali, orsi polari, narvali, trichechi e foche inclusi. Inoltre, in assenza di ghiaccio che rifletta i raggi solari verso lo spazio, la regione andrà incontro ad un surriscaldamento. Una riduzione della banchisa si traduce in una maggiore superficie oceanica esposta al calore.
Secondo una recente ricerca la diminuzione del ghiaccio marino potrebbe aver già causato effetti a distanza. L’aumento di temperatura nell’oceano artico, dovuto alla riduzione totale della banchisa, rallenta e modifica il flusso della corrente a getto, prolungando la durata di insoliti eventi climatici, un fenomeno conosciuto ai meteorologi con il nome di “blocking patterns” (modelli climatici bloccati). Infatti, i cambiamenti nelle dinamiche della corrente a getto sono considerati la causa di inverni estremamente rigidi nell’emisfero settentrionale che si verificano quando i meandri della corrente portano l’aria artica verso sud; sono anche responsabili di eventi climatici di insolita durata come le persistenti ondate di caldo che hanno colpito gli Stati Uniti quest’anno.
Secondo il parere degli scienziati, il cambiamento climatico attuale, responsabile di un aumento della temperatura terrestre pari a 0,8 gradi Celsius rispetto ai primi anni del ventesimo secolo, è da imputare alle emissioni di gas serra rilasciate dai combustibili fossili, quali carbone, petrolio e gas nonché alla distruzione di ecosistemi ricchi di carbonio come le foreste pluviali.