- Secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Science, circa un terzo di tutte le aree protette del pianeta, ovvero 6 milioni di chilometri quadrati, porta le cicatrici di un elevato degrado dovuto all’uomo.
- I ricercatori hanno scoperto che le riserve e i grandi parchi gestiti con criteri più rigidi si trovano in condizioni migliori rispetto a quelli dove i controlli sono meno scrupolosi.
- Gli autori sostengono che bisognerebbe considerare di valutare l’efficacia delle aree protette, soprattutto dal momento che i vari paesi cercano di rispettare uno degli obiettivi di Aichi sulla biodiversità, che esige la protezione del 17 percento della superficie terrestre entro il 2020.
Strade, allevamenti, miniere e città si stanno riversando all’interno di molti parchi del pianeta, nelle riserve e nei santuari naturali, lasciando su un terzo di tutte le aree protette della Terra, quasi tre volte e mezzo le dimensioni dell’Alaska, le cicatrici di un forte degrado.
Questa è una delle conclusioni a cui giungono l’ecologo James Watson e i suoi colleghi in un nuovo studio pubblicato il 17 maggio sulla rivista Science.
“Stiamo dimostrando che almeno un terzo dei territori protetti è relativamente inutile,” ha dichiarato in un’intervista Watson, della Wildlife Conservation Society (WCS) e dell’Università del Queensland, nella città australiana di Brisbane.
Gli scienziati sanno che le aree protette rappresentano una linea di difesa essenziale contro l’estinzione delle specie. Ciò ha portato i governi di molti paesi del mondo a riservare alla conservazione quasi il 15 percento della superficie terrestre, raddoppiando le aree protette da quando è stata adottata la Convenzione sulla diversità biologica in occasione di un summit a Rio de Janeiro nel 1992. Questi traguardi hanno ricevuto il plauso della comunità ambientalista, che sostiene che il pianeta è sulla strada giusta per raggiungere il traguardo di tutelare il 17 percento della superfice terrestre entro il 2020, uno degli obiettivi di Aichi sulla biodiversità fissati in Giappone nel 2010.
Gli studi sul campo di Watson in tutto il mondo, però, hanno rivelato che molte di queste aree protette per la biodiversità non rappresentano quella “fuga dal genere umano” che dovrebbero essere, afferma lo stesso Watson, aggiungendo: “Ho visto molte, molte aree protette venire letteralmente distrutte.”
Perciò, lui e i suoi colleghi hanno deciso di affrontare il problema su scala mondiale: hanno preso in esame un sottoinsieme di oltre 200.000 aree protette in tutto il pianeta e ne hanno confrontato i confini con le mappe “dell’impronta ecologica dell’uomo.” Queste mappe registrano l’entità dell’impatto antropico fornendo informazioni su variabili come la posizione di strade, coltivazioni e centri abitati.
Il team di ricercatori ha scoperto che le riserve e i parchi gestiti con criteri più rigidi si trovano in condizioni migliori rispetto a quelli dove i controlli sono meno scrupolosi, segnalando la riserva nazionale di Niassa in Mozambico, il santuario della fauna selvatica di Keo Seima in Cambogia e il parco nazionale di Madidi in Bolivia come luoghi in cui i governi stanno collaborando con le ONG come WCS per mantenere gli spazi selvatici relativamente intatti.
Tuttavia, a livello globale, solo il 10 per cento circa delle aree protette prese in considerazione dallo studio non mostra alcun segno di ciò che gli autori chiamano una “forte pressione antropica.” Al contrario, qualcosa come 6 milioni di chilometri quadrati, quasi il 33 percento di tutta la superfice terrestre sotto protezione, risulta degradata proprio a causa di tale pressione.
Spesso, queste influenze umane sono più marcate nelle aree dei paesi in via di sviluppo, dove la popolazione è in aumento. Persino in Australia, il paese d’origine, di Watson, gli impatti antropici si sono infiltrati nei santuari di conservazione della natura. Infatti Watson segnala che, attualmente, un’azienda estrattiva sta prelevando uranio dal parco nazionale di Kakadu, mentre nella riserva naturale sull’isola di Barrow, piena di specie endemiche e soprannominata “le Galapagos australiane,” la Chevron sta sfruttando le riserve di petrolio e gas naturale.
Watson sostiene che, secondo alcune stime, le conseguenze della presenza dell’uomo potrebbero innescare l’estinzione di metà delle specie terrestri nei prossimi 50 anni.
“Oltre al danno per queste specie,” continua, “ciò avrà implicazioni enormi per l’umanità in termini di degrado degli ecosistemi e dei servizi che questi forniscono,” in particolare per le popolazioni più povere del pianeta che da questi servizi ecosistemici dipendono fortemente.
Le iniziative per proteggere ampie zone del nostro pianeta a favore della natura, come Nature Needs Half e Half Earth, sono “valide, ambiziose e davvero coraggiose,” a detta di Watson, che però aggiunge di essere preoccupato che queste proposte possano portare alcuni paesi a falsificare l’estensione dei territorio dedicato alla conservazione, dato che lo studio mostra come, in alcune aree protette, manchino un’applicazione efficace delle normative e i controlli necessari a preservare gli habitat per la biodiversità.
“Questo danneggia la conservazione,” afferma Watson. “Preferirei avere una valutazione onesta di quanta area naturale venga salvaguardata e che ciò venga fatto a dovere.”
Sviluppare questo tipo di valutazione è proprio ciò che Watson e i suoi colleghi stanno cercando di fare. In seguito, potranno usare tale analisi per individuare con precisione i punti dove si possono ottenere dei risultati mediante investimenti per rafforzare il rispetto delle leggi di tutela e incrementare i controlli: aree che contengono una grande diversità di specie, per esempio, o che forniscono rifugio a fauna selvatica minacciata.
“È necessario iniziare a individuare le migliori aree protette, finanziarle e farle rispettare,” afferma Watson, aggiungendo che questo tipo di analisi potrebbe essere utile a determinare le aree prioritarie in caso di fondi limitati. E poi continua: “Non si può soltanto andare a salvare tutto quanto dappertutto. Non si lavora così.”
L’immagine del banner, un’iguana nana di O’Shaughnessy, è di Jaime Palacios/WCS.
John Cannon è un collaboratore di Mongabay che vive in Medioriente. Si trova su Twitter : @johnccannon
Citazioni
Jones, K. R., Venter, O., Fuller, R. A., Allan, J. R., Maxwell, S. L., Negret, P. J., & Watson, J. E. M. (2018). One-third of global protected land is under intense human pressure. Science, 360(6390), 2–5.
Venter, O., Sanderson, E. W., Magrach, A., Allan, J. R., Beher, J., Jones, K. R., … & Levy, M. A. (2016). Sixteen years of change in the global terrestrial human footprint and implications for biodiversity conservation. Nature Communications, 7, 12558.