- Una nuova ricerca che esamina gli effetti di 19 fattori di stress provocati dall'uomo sull'ambiente marino mostra che solo il 13% degli oceani può ancora essere considerato incontaminato.
- Delle restanti aree selvagge, molte delle quali si trovano nei mari aperti e ai poli, meno del 5 per cento si trova sotto protezione, e il cambiamento climatico e i progressi della tecnologia potrebbero minacciarle.
- Gli autori dello studio chiedono una cooperazione internazionale al fine di proteggere le aree incontaminate dell'oceano, incluso un "Accordo di Parigi per l'Oceano", che sperano venga firmato nel 2020.
Un nuovo studio rivela che gli umani hanno spazzato via la maggior parte delle aree incontaminate degli oceani presenti nel mondo.
Nella prima mappatura globale degli impatti umani sugli ambienti marini, un team di scienziati provenienti da Australia, Canada e Stati Uniti ha dimostrato che pochi angoli del globo sono stati lasciati intatti da spedizioni, attività minerarie e pesca commerciale. Solo il 13% degli oceani del mondo detiene ecosistemi intatti ed è libero da questi impatti – questa la definizione di zone incontaminate marine secondo il team. E delle restanti aree sottomarine, meno del 5% è protetto.
“Sappiamo quanto siano preziosi e unici i posti nell’oceano che non vivono alti livelli di attività umana”, ha detto in un’intervista Kendall Jones, scienziato della conservazione presso la Wildlife Conservation Society. Sono casa di un’ampia varietà di vita, compresi molti dei migliori predatori dell’oceano, ha aggiunto.
Ma a differenza della nostra conoscenza su come la natura selvaggia sia scomparsa sulla terra, “non avevamo una vera mappa globale di dove si trovino queste località nell’oceano”, ha spiegato Jones, che è anche un dottorando presso l’Università del Queensland in Australia.
Video di Kendall Jones, Carissa Klein e James Watson.
Per sviluppare questa mappa, Jones e i suoi colleghi hanno tracciato le posizioni di 19 “fattori di stress” umani negli oceani del mondo, che vanno dalla pesca intensiva e le spedizioni marittime a fattori terrestri come il deflusso dei fertilizzanti. Poi hanno effettuato un drill-down fino a una risoluzione di 1 km² e hanno individuato i luoghi nell’ambiente marino che mostravano l’impatto meno combinato. Quelle macchie ammontavano a 54 milioni di chilometri quadrati, ovvero al 13,2% dell’ambiente marino.
Il team si è inoltre concentrato sull’analisi di16 diverse aree oceaniche, portando alla luce enormi disparità nella distribuzione delle zone marine. Ad esempio, parti dell’Oceano Indiano e del Pacifico presentano più di 16 milioni di chilometri quadrati di natura selvaggia. Al contrario, l’area intorno all’Africa meridionale presenta meno di 2.000 chilometri quadrati incontaminati. Jones ha spiegato che i ricercatori hanno elaborato questa parte dell’analisi allo scopo di aiutare a individuare “il meglio del meglio” delle zone incontaminate che rimangono in quanto potenziali obiettivi per la conservazione.

La ricerca, pubblicata il 26 luglio sulla rivista Current Biology, mette in risalto la rarità – ma non la completa assenza – di aree selvagge marine vicino a zone costiere e densamente popolate. Questi punti sono luoghi dove si trovano anche molte aree marine protette. Potrebbero inoltre ospitare specie in via di estinzione o ecosistemi minacciati, come nelle barriere coralline, ha detto Jones, ma pochi di essi possono ancora essere considerati zone incontaminate.
“Non stiamo dicendo che questi luoghi non siano degni di protezione o di interventi di conservazione”, ha detto. “Ma sosteniamo che l’importante è salvare quei luoghi incontaminati che funzionano ancora come una volta.”
Le più alte concentrazioni di natura selvaggia sono situate ai poli e in mare aperto. In effetti, la sfida di attraversare il ghiaccio marino intorno all’Antartico e all’Artico e le vaste distanze che devono essere percorse per raggiungere punti lontani in mare aperto, hanno protetto queste aree.
Ma Jones ha sottolineato che i progressi tecnologici hanno permesso agli uomini di esplorare più a fondo l’oceano alla ricerca di pesci. E il cambiamento climatico sta sciogliendo il ghiaccio marino, aprendo così nuove parti dell’Artico un tempo inaccessibili alla pesca e all’estrazione di risorse naturali. “Queste incombenti minacce suggeriscono che potremmo dover cambiare atteggiamento nel modo in cui proteggiamo questi luoghi”, ha affermato Jones.

Lo scienziato ha paragonato questo problema ai diversi approcci che si compiono nell’assistenza sanitaria. “Al momento, stiamo spendendo tutti i nostri soldi per la chirurgia cardiaca di emergenza senza misure preventive di salute”, ha detto, “quindi stiamo lavorando solo in pronto soccorso.
“Quello che cerchiamo di dire è che dovremmo cambiare approccio e salvare questi posti prima che arrivino a quel punto.”
Questo sforzo richiederà una cooperazione internazionale, in quanto è necessario che i Paesi collaborino per salvaguardare parti dell’oceano che si trovano al di fuori di una singola giurisdizione, ha continuato Jones. Le organizzazioni che gestiscono la pesca nelle regioni del pianeta, piuttosto che i singoli paesi, potrebbero lavorare insieme per limitare la pesca commerciale nelle aree selvagge.
Un altro problema è che oltre la metà di tutte le attività di pesca in alto mare è sovvenzionata.
“Il governo sta finanziando queste barche perché vadano a pescare in posti molto lontani che altrimenti non sarebbero praticabili”, ha detto Jones.

Gli autori dello studio hanno sottolineato che le Nazioni Unite stanno elaborando i dettagli per un “Accordo di Parigi per l’Oceano” a livello globale. Il patto giuridicamente vincolante mira a proteggere la biodiversità in mare aperto e Jones ha affermato di aspettarsi che sia pronto per essere firmato entro il 2020.
Tali accordi su vasta scala potrebbero aiutare a fronteggiare le pressioni su cui gli esseri umani hanno meno controllo, come il cambiamento climatico, e mantenere queste aree incontaminate come rifugi indispensabili nel futuro.
“Gli studi hanno dimostrato che i luoghi incontaminati con bassi livelli di impatto umano possono essere più resistenti ai cambiamenti climatici o al deflusso terrestre”, ha detto Jones. “Salvare questi luoghi incontaminati potrebbe essere una buona opzione per consentire alle specie e alla biodiversità di adattarsi e riprendersi da quegli impatti dei cambiamenti climatici che non possiamo gestire con la stessa facilità.”.
Immagine di copertina di una balena franca australe, foto di Rhett A. Butler/Mongabay.
John Cannon è un cronista di Mongabay, con sede in Medio Oriente. Seguitelo su Twitter: @johnccannon
Citazioni
Jones, K., Klein, C., Halpern, B. S., Venter, O., Grantham, H., Kuempel, C. D., … Watson, J. E. M. (2018). The location and protection status of Earth’s diminishing marine wilderness. Current Biology.