- In un nuovo studio sono stati utilizzati i dati relativi a 60 anni di ricerca sul plancton per documentare l'incremento della quantità di plastica nell'oceano.
- Gli autori dello studio hanno classificato i rifiuti impigliati nei registratori continui di plancton, dispositivi di campionamento trainati da navi, e ciò a dimostrare un aumento significativo della plastica nell'oceano a partire dagli anni Novanta.
- Gli scienziati hanno sospettato a lungo un incremento simile ma, prima d'ora, non erano stati in grado di dimostrarlo con dati tangibili.
È da decenni che gli scienziati esprimono preoccupazione per la crescente quantità di plastica presente nell’oceano. La maggior parte di loro ha constatato tale aumento con i propri occhi. Tuttavia, non è solitamente possibile cogliere questa tendenza perché i dati disponibili non coprono un arco temporale sufficientemente ampio.
Tutto è cambiato con un nuovo studio, pubblicato il 16 aprile sulla rivista Nature Communications, relativo alla plastica che si è impigliata nei dispositivi di campionamento del plancton in un arco di 60 anni. La ricerca dimostra per la prima volta un aumento significativo della plastica in mare aperto.
“Anche se era esattamente quello che ci aspettavamo, è stata una sorta di vera e propria conferma: è qualcosa di concreto”, ha dichiarato in un’intervista Clare Ostle, ricercatrice di biogeochimica marina presso la Marine Biological Association, associazione che si occupa di biologia marina, di Plymouth in Inghilterra.
Dai grandi gyre oceanici che raccolgono enormi “frammenti di spazzatura” marina all’onnipresente microplastica (piccoli frammenti lasciati dai nostri rifiuti quando si frantumano in presenza di luce solare o di acqua salata) negli ultimi decenni si è assistito a una “grande ondata di ricerche sui rifiuti marini”, ha dichiarato a Mongabay Lars Gutow, ecologo marino presso l’istituto Alfred Wegener, centro Helmholtz per la ricerca in ambito polare e marino di Bremerhaven (Germania).
“Notiamo che la quantità di plastica prodotta ogni anno è aumentata in modo esponenziale, ma non abbiamo dati che dimostrino tale reale accumulo di rifiuti marini nell’ambiente”, ha affermato Gutow, studioso di rifiuti marini che, tuttavia, non ha preso parte allo studio in questione.
È difficile risalire a ciò che accadeva tempo addietro, prima che il brulichio di rifiuti galleggianti divenisse un problema riconosciuto, e tenere traccia dell’accumulo di rifiuti nell’oceano. Difficile, ma non impossibile, almeno in un certo senso, ha notato Ostle. La Marine Biological Association dispone di 53 registratori continui di plancton, o CPR (Continuous Plankton Recorders), che le navi mercantili trainano per raccogliere campioni di plancton, principalmente nel Nord dell’Oceano Atlantico. Nel corso dei 60 anni di questo studio, tali navi hanno percorso circa 12 milioni di chilometri (5 milioni di miglia nautiche).
Lo zoologo britannico Alister Hardy ha inventato il CPR per monitorare in modo sistematico il plancton. Dal primo utilizzo dei CPR nel 1931, la loro struttura, basata su un nastro di seta mobile che intrappola il plancton per grande distanze, è cambiata poco e si sono dimostrati strumenti robusti e affidabili nella raccolta di campioni mentre vengono trainati a velocità inferiori a 25 nodi (circa 45 km/h), talvolta con il mare agitato.
Pochi anni fa, il team del laboratorio incaricato di mantenere in funzione i CPR ha iniziato a notare un aumento dei rifiuti impigliati nelle strisce di seta.
«È stato davvero il momento in cui ho pensato “Bene, diamo un’occhiata ai registri del passato e vediamo come tutto ciò è stato annotato nel corso del tempo”» ha dichiarato Ostle.
In un dato inserito nel 1957, ha trovato ciò che stava cercando: il primo caso documentato di un rifiuto rimasto impigliato in un CPR e costituito da un filo utilizzato dai pescherecci per la pesca a strascico. Il fatto che il rilevamento fosse datato in quell’anno aveva senso in quanto, all’incirca in quel periodo, i pescatori hanno iniziato a utilizzare reti e fili sintetici come alternative meno costose e più efficienti rispetto ai materiali naturali utilizzati da secoli.
Successivamente, nel 1965, i CPR hanno intrappolato un secondo pezzo di plastica, un sacchetto, al largo della costa irlandese. Da quel momento in poi, i registri della ricerca continua sul plancton hanno riportato, prima, pochi casi e, poi, una miriade di rifiuti aggrovigliati ai CPR.
Ostle e gli altri coautori fanno notare che i CPR si spostano nell’acqua in un modo simile a quello degli animali marini e, pertanto, rischiano di impigliarsi in modo analogo. La ricercatrice ha affermato infatti che gli uccelli e le tartarughe marini iniziano a comparire nella letteratura scientifica degli anni ’60. Da un lato, analizzando i rifiuti rimasti impigliati, i ricercatori hanno rilevato che molta della plastica in questione era vecchia o si trattava di attrezzi da pesca scartati, soprattutto dopo il 2000. Dall’altro lato, i casi riguardanti i sacchetti di plastica sono stati registrati con minore frequenza dal 2000 in poi.
Secondo gli autori, la variazione dei tipi di plastica rilevati potrebbe essere dovuto al fatto che gli attrezzi da pesca sono progettati per intrappolare ciò che si muove nell’acqua per cui è più probabile che rimangano impigliati nei CPR. Tale variazione potrebbe anche essere dovuta al fatto che vengono trovati meno sacchetti monouso a causa delle leggi e delle norme sociali che ne scoraggiano l’utilizzo, ha dichiarato Ostle.
“Le persone stanno davvero iniziando a fare attenzione e stanno divenendo molto più consapevoli sul loro uso della plastica”, ha detto.
Si è affrettata ad avvertire che tali dati relativi a eventi fortuiti non sono quantitativi, nel senso che non possono fornire un quadro preciso sulla quantità di plastica presente nell’oceano. Invece, li descrive come “semi-quantitativi”, nel senso che rappresentano campioni del tipo di spazzatura che tendono ad aggrovigliarsi ai CPR in una parte relativamente piccola dell’Oceano Atlantico.
“In un certo senso, sono segnalazione di incidenti”, ha dichiarato Gutow. Tuttavia, parlando della ricerca, ha detto: “È ottima. Dobbiamo continuare così”.
Ha affermato che la ricerca fornisce un “chiaro esempio” dell’aumento dei rifiuti di plastica che inquinano l’oceano con il passare del tempo.
“Lo trovo innegabile”, ha dichiarato Gutow. “Me lo aspettavo. Penso che tutti se lo immaginassero, ma prima non potevamo dimostrarlo”.
Sia lui che Ostle sottolineano l’importanza di liberarsi delle “reti fantasma” e degli altri attrezzi da pesca che si rivelano tanto letali per balene, tartarughe e altri animali marini. Gutow ha dichiarato che, a suo avviso, il problema della plastica nell’oceano è legato ad altri modi con cui noi, esseri umani, influenziamo l’oceano.
“È strettamente collegato ad altri fattori di stress di origine antropica,” ha dichiarato. “Penso sia importante notarlo, per avere una visione globale sugli effetti che gli esseri umani hanno sugli ecosistemi marini”. Senza tale approccio, ha aggiunto, difficilmente saremo in grado di risolvere i problemi che li interessano.
Immagine nel banner di una megattera impigliata in reti da pesca fornita da E. Lyman/HWS e NOAA (autorizzazione del Marine Mammal Health and Stranding Response Program n. 932-1905) (dominio pubblico).
John Cannon è un autore membro di Mongabay e vive in Medio Oriente. Seguilo su Twitter: @johnccannon
Precisazione: una precedente versione del presente articolo riportava informazioni errate in merito a Clare Ostle e ai CPR. Entrambi fanno riferimento alla Marine Biological Association, non all’Università di Plymouth
Citazione
Ostle, C., Thompson, R. C., Broughton, D., Gregory, L., Wootton, M., & Johns, D. G. (2019). The rise in ocean plastics evidenced from a 60-year time series. Nature Communications, 10(1), 1622. doi:10.1038/s41467-019-09506-1
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Articolo originale: https://news-mongabay-com.mongabay.com/2019/04/swelling-amount-of-plastic-in-the-ocean-confirmed-by-new-study/