- Un nuovo studio indica che le attività umane, come la caccia eccessiva, la perdita di habitat e gli incendi, hanno contribuito a far calare di più del 56% le specie nei gruppi di mammiferi nei tropici americani.
- Lo studio si è basato su inventari di animali in più di 1000 siti di studio nella regione neotropicale, da studi pubblicati negli ultimi 30 o 40 anni, ma con dati che risalgono al tempo della colonizzazione europea dei tropici americani.
- Secondo lo studio, le zone paludose dell'Amazzonia e del Pantanal sono considerate relativamente intatte dal punto di vista della fauna, ma gli incendi che hanno avuto luogo recentemente in queste regioni potrebbero avere avuto effetti negativi sulla fauna selvatica e sugli habitat.
- I ricercatori sperano che le loro scoperte possano essere utili per sviluppare politiche di conservazione efficaci, come una migliore gestione e tutela delle aree protette esistenti e i tentativi di fermare il bracconaggio, la deforestazione e gli incendi.
Un nuovo studio fornisce uno sguardo approfondito sull’impatto negativo delle attività umane sulla fauna selvatica della regione neotropicale delle Americhe negli ultimi 500 anni.
Lo studio è stato pubblicato il 15 settembre nella rivista Nature Scientific Reports, e ha rilevato che dal 1500, all’incirca il periodo in cui è iniziata la colonizzazione europea, è stato perso più del 56% delle specie nei gruppi di mammiferi coesistenti nella regione neotropicale. Le perdite più importanti sono state riscontrate nelle specie di ungulati, come il tapiro del Sudamerica (Tapirus terrestris) e il pecari labiato (Tayassu pecari).
Secondo lo studio, gli essere umani sono in gran parte i responsabili di questa vasta perdita di fauna selvatica, o defaunazione, a causa di caccia eccessiva, perdita di habitat, incendi dolosi o colposi e l’introduzione di specie invasive e di malattie.
Secondo il coautore dello studio Carlos Peres, professore di ecologia di conservazione tropicale presso la University of East Anglia (UEA) nel Regno Unito, se la fauna selvatica e gli habitat sono costantemente in declino dal XVI secolo, le perdite si sono aggravate negli ultimi 50 anni.
“Abbiamo avuto un grande aumento della perdita di habitat, che coincide più o meno con il momento in cui è stata costruita la prima grande strada che permette di raggiungere l’Amazzonia dal resto del Brasile”, ha riferito Peres a Mongabay. “Come sappiamo, l’Amazzonia è stata isolata dal resto del Brasile fino al 1971, quindi si tratta di un punto di riferimento temporale molto importante per quanto riguarda la deforestazione tropicale”.
Lo studio, condotto da ricercatori dell’UEA e dell’Università di San Paolo (USP), in Brasile, si è basato su inventari di animali provenienti da 1029 siti di studio in 23 paesi, dal Messico, al Cile, all’Argentina. Questi inventari sono stati pubblicati principalmente negli ultimi 30-40 anni, ma i dati risalgono all’epoca della colonizzazione europea.
I ricercatori hanno scoperto che le pressioni antropogeniche, come la perdita di habitat e la caccia eccessiva, sono state le prime cause dell’estinzione di specie locali e della riduzione delle dimensioni corporee all’interno dei vari gruppi di mammiferi.
“Ogni specie persa da un gruppo di specie coesistenti apre uno spazio ecologico, e di conseguenza una falla, nel funzionamento dell’ecosistema”, ha scritto in un’email l’autore principale dello studio, Juliano Bogoni, un ricercatore postdoc presso l’UEA. “Ad esempio, la perdita di una specie frugivora di grandi dimensioni compromette il processo di dispersione dei semi, la rigenerazione forestale e i cambiamenti nelle dinamiche fitodemografiche (come le dinamiche di composizione forestale e la distribuzione degli alberi). La perdita di un superpredatore altera il controllo delle prede e crea potenzialmente problemi nel controllo delle riserve virali. Con l’estinzione di una specie locale, l’ecosistema perde la sua variabilità genetica e il suo ruolo ecologico (la diversità funzionale)”.
Peres, che ha passato gli ultimi 40 anni a studiare la caccia commerciale e di sussistenza nella regione dei tropici americani, ha rivelato di essere stato sorpreso dalle ultime scoperte.
“Ho visitato più siti nell’Amazzonia brasiliana e ho fatto più studi sulla fauna selvatica di qualsiasi altro biologo mai esistito, ora o in passato”, ha riferito Peres. “Ma sono abituato a vedere luoghi in cui vengono perse solo le specie dal corpo molto grande. Questo articolo invece mostra che a livello locale ci sono molte estinzioni di specie dalle dimensioni del corpo medie”.
I ricercatori sperano che questo studio possa essere d’aiuto nello sviluppo delle politiche e delle attività di conservazione nella regione neotropicale, in particolare nelle regioni dell’Amazzonia e del Pantanal, che sono ancora considerate intatte dal punto di vista faunistico. Invece, regioni come quella della foresta atlantica del Brasile e della Caatinga sono così degradate da essere considerate degli ecosistemi “vuoti”, secondo lo studio.
Secondo Bogoni le future attività di conservazione dovrebbero includere “un’efficace attuazione e applicazione della legge nelle aree protette esistenti e il contenimento delle pressioni politiche per declassare o ridimensionare queste aree”. Lo studioso ricorda anche la necessità di fermare il bracconaggio, la deforestazione e gli incendi causati dall’uomo.
Se il lavoro di conservazione può aiutare a proteggere i biomi intatti delle regioni dell’Amazzonia e del Pantanal, gli incendi che si sono verificati in queste aree potrebbero avere avuto un impatto devastante sulla fauna selvatica e sugli habitat, ha continuato Peres. La regione del Pantanal è stata colpita in modo particolarmente duro, dato che “non è destinata a bruciare” ha riferito.
“La regione del Pantanal non subiva incendi significativi da molti, molti anni” ha detto Peres. “Quindi c’è molta biomassa, molto carburante da bruciare. Le persone hanno riportato… grandi numeri di carcasse e altissimi livelli di mortalità. Gli incendi del Pantanal sono davvero molto gravi … e non sono ancora terminati”.
Mentre i risultati dello studio indicano chiaramente che gli esseri umani hanno contribuito alla diffusa defaunazione della regione neotropicale, l’articolo termina con un invito all’azione, e offre una modesta speranza.
“Gli Hominini e altri mammiferi coesistono da quando i primi cacciatori del Paleolitico utilizzavano strumenti di pietra, circa 3-4 milioni di anni fa” scrivono gli autori. “In questo lungo periodo di tempo, la perdita di biodiversità è accelerata solo recentemente, a partire dalla rivoluzione industriale. Assicuriamoci che questo impoverimento sia solo un evento del passato, e non anche del futuro, altrimenti la situazione dei mammiferi nella regione neotropicale sarà sempre peggiore”.
Fonte:
Bogoni, J. A., Peres, C. A., & Ferraz, K. M. (2020). Extent, intensity and drivers of mammal defaunation: A continental-scale analysis across the Neotropics. Scientific Reports, 10(1). doi:10.1038/s41598-020-72010-w
Didascalia immagine banner: un giaguaro intento a nuotare. Immagine di Tambako The Jaguar / Flickr.
Elizabeth Claire Alberts fa parte dello staff di Mongabay. Seguila su Twitter @ECAlberts.
Articolo originale: https://news-mongabay-com.mongabay.com/2020/09/500-years-of-species-loss-humans-drive-defaunation-across-neotropics/