- Un nuovo studio dell'associazione internazionale Consorzio ICCA indica la necessità di includere i diritti umani nelle politiche in materia di conservazione per contrastare la scomparsa di biodiversità a livello mondiale.
- Lo studio prende in esame 17 comunità indigene e locali sparse nel mondo, mostrando come le loro pratiche tradizionali e il loro sistemi di governance unici nel loro genere riescano a proteggere gli ecosistemi e i biomi meglio di quanto non facciano gli Stati o altri organismi.
- I ricercatori ribadiscono che i diritti umani sono fondamentali per il quadro globale della biodiversità post-2020, che dovrebbe essere adottato in occasione della COP15 di ottobre, durante la quale i leader mondiali sottoscriveranno un nuovo accordo decennale in favore della protezione della biodiversità nel contesto di ciò che gli scienziati chiamano la sesta estinzione di massa.
- Il nuovo accordo sostituirà il precedente piano strategico decennale, che è stato considerato un fallimento in quanto nessuno dei 20 obiettivi di Aichi è stato raggiunto.
Secondo un numero crescente di studi, la fauna selvatica del pianeta sta scomparendo a una velocità senza precedenti e gli ecosistemi si stanno degradando rapidamente. Ecco perché la maggiore conferenza mondiale sulla biodiversità, la COP15, che avrà luogo quest’anno, potrebbe rappresentare un evento importante per il pianeta.
Una nuova relazione indica però che uno dei pochi modi per raggiungere gli obiettivi mondiali sulla biodiversità e salvare la natura consiste nel porre i diritti umani al centro di tutte le politiche in materia di conservazione e riconoscere i diritti culturali e territoriali delle popolazioni indigene e locali.
Secondo una relazione del Consorzio ICCA, associazione di organizzazioni delle comunità e dei popoli indigeni e dei loro sostenitori, le popolazioni indigene e le comunità locali provvedono in modo attivo alla conservazione di almeno il 21% della superficie terrestre mondiale, vale a dire all’incirca la superficie dell’Africa.
Nell’esame approfondito della questione, i membri del Consorzio ICCA hanno preso in considerazione 17 di queste comunità sparse in tutto il mondo che riescono a fungere da roccaforti per le specie endemiche e minacciate, al fine di capire quale sia la ragione del loro successo. La relazione che ne è scaturita, “Territories of Life: 2021 Report” (“Territori di vita: relazione 2021”), indica i modi in cui le pratiche culturali locali e i sistemi di governance unici nel loro genere costituiscono i motivi principali grazie ai quali in questi casi la conservazione è stata possibile.
“I governi dovrebbero riconoscere il ruolo, di primaria importanza, che i popoli indigeni e le comunità locali svolgono ai fini della protezione e della conservazione della natura”, ha affermato Ameyali Ramos, coordinatrice delle politiche internazionali presso il Consorzio ICCA. “Credo che da ciò dipenda tutto il resto”.
Tra gli esempi citati nella relazione si contano i Masai della Tanzania che vivono nei pressi del bacino idrografico del lago Natron, vale a dire il sito di riproduzione più importante al mondo per i fenicotteri minori, e hanno a lungo protetto il territorio che offre loro i mezzi di sostentamento, ad esempio pascoli, fonti d’acqua, sale pastorizio naturale e siti chiave sotto il profilo spirituale. In Madagascar, invece, si dice che i Fokonolona di Tsiafajavona siano discendenti dei cinque figli dell’antico re Andriampenitra. Conservano diligentemente la loro foresta poiché rappresenta la dote della loro principessa e l’eredità per le generazioni future. Oggi, il loro territorio ospita 11 specie in pericolo critico di estinzione, 32 in pericolo e 25 specie vulnerabili.
Pratiche di lunga data
In Ecuador, è da molto tempo che la comunità Kichwa di Sarayaku si prende cura del suo territorio nella foresta pluviale amazzonica difendendo ciò che considera Kawsak Sacha, o Foresta vivente, costituita da tutte le forze della vita. La foresta pluviale è considerata un essere vivente con diritti, costituito dalla flora e dalla fauna, nonché dagli esseri difensori che si crede abbiano cura degli alberi, delle lagune, delle paludi e degli altri elementi della foresta pluviale e vivano insieme agli esseri umani, dice Daniel Santi, leader Kichwa di Sarayaku.
“Credo che la conoscenza dei popoli indigeni riguardi, in primo luogo, il rispetto e l’equilibrio delle relazioni reciproche”, dice Santi, che ha collaborato con il Consorzio ICCA per la stesura della relazione finale. “Se gli squilibri si verificano all’interno dell’ecosistema oppure nei confronti degli esseri che lo difendono, non è possibile porvi rimedio”.
Santi, 45 anni, afferma che la comunità si è organizzata anche a livello politico dalla fine degli anni ‘70 e ha preso parte a proteste e azioni legali contro il governo per impedire la vendita del loro territorio alle società petrolifere. I popoli indigeni di Sarayaku hanno ottenuto il diritto di proprietà dei loro 135.000 ettari di territorio di foresta pluviale nel 1992, ma ciò non ha fermato le continue minacce poste dalle attività estrattive, come avvenuto nei territori di altri popoli indigeni vicini, ha dichiarato Santi.
Ramos del Consorzio ICCA ritiene che le discrepanze tra le leggi scritte e le applicazioni illecite rappresentino un problema globale e sistemico “che rende molto difficile per le popolazioni indigene far valere i diritti sui loro terreni e territori”.
Accordo globale sulla biodiversità
La relazione del Consorzio ICCA è l’ultima di una serie sempre più ampia di ricerche che mostra come le comunità indigene rappresentino gli attori più efficaci nella difesa del loro ambiente naturale, per il quale i leader delle popolazioni indigene, come Santi, combattono da tempo. All’inizio di quest’anno, l’ONU ha pubblicato una relazione nella quale dimostra che sostenere gli indigeni e le altre comunità delle foreste pluviali costituisce il modo più efficiente sotto il profilo dei costi per far fronte ai cambiamenti climatici e proteggere la biodiversità.
È da molto tempo che gli scienziati mettono in guardia contro il fatto che la biodiversità mondiale sta rapidamente diminuendo, principalmente a causa della perdita di habitat dovuta alle attività umane quali l’espansione delle attività agricole e le attività estrattive industriali.
Questa perdita potrebbe essere dannosa anche per gli esseri umani, avvertono gli scienziati, in quanto la maggior parte della fauna selvatica svolge un importante ruolo regolatore negli ecosistemi sani, ad esempio ai fini della mitigazione delle malattie.
In ottobre, i leader mondiali si riuniranno per la prossima Conferenza delle Parti della Convenzione sulla diversità biologica, nota anche come COP15, a Kunming, in Cina, dove sottoscriveranno il quadro globale per la biodiversità post-2020, vale a dire un nuovo accordo decennale volto a proteggere la biodiversità del pianeta. Sono 196 i paesi parte della Convenzione sulla biodiversità (Convention on Biological Diversity, CBD) che dovrebbero partecipare alla Conferenza, anche se non è chiaro come la pandemia di COVID-19 ne influenzerà la partecipazione. La COP15 era prevista inizialmente nell’ottobre 2020 ma è già stata rinviata due volte.
Il quadro post-2020 sostituirà il precedente accordo di Aichi, sottoscritto in Giappone nel 2010, che è stato ampiamente considerato un fallimento in quanto, secondo una valutazione dell’ONU, non è stato raggiunto nessuno dei 20 obiettivi di conservazione.
Il Consorzio ICCA è una delle varie organizzazioni non governative (ONG) che partecipano ai negoziati della CBD, insieme ad altri scienziati ed esperti in materia di conservazione, che stanno attualmente discutendo i particolari del quadro post-2020 e il modo per raggiungere al meglio l’obiettivo strategico della CBD di “vivere in armonia con la natura” entro il 2050.
Ramos auspica che, date le tempistiche, la relazione “dia vita a molti dibattiti”. Sottolinea inoltre che i diritti umani devono essere al centro di tutte le politiche in materia di conservazione e che devono essere riconosciuti i diritti territoriali delle popolazioni indigene e locali.
Finora, sostiene Ramos, è stata lampante la mancanza dei diritti umani nel progetto di proposta di una CBD dell’ONU per il quadro post-2020 pubblicata nell’agosto 2020, ma i dibattiti hanno registrato progressi durante le riunioni preparatorie in corso, grazie al contributo delle varie organizzazioni coinvolte nei negoziati. L’anno scorso, il Consorzio ICCA e una serie di altri gruppi che operano in favore della conservazione e dei diritti delle popolazioni indigene hanno elaborato un documento di lavoro volto a contribuire ai dibattiti sul quadro post-2020, nel quale hanno riformulato il progetto di CBD dell’ONU in modo tale da integrare disposizioni sui diritti umani in tutti i 20 obiettivi.
Tale riformulazione riguarda ad esempio l’obiettivo 2, che consiste nel salvataggio del 30% del pianeta entro il 2030 e per il quale molti media hanno mostrato il loro apprezzamento. I gruppi suggeriscono invece che l’obiettivo debba essere modificato in modo tale da specificare che il 30% individuato dovrebbe “riguardare aree particolarmente importanti per la biodiversità attraverso un riconoscimento e un sostegno adeguati in favore dei territori, delle terre e delle acque collettivi delle popolazioni indigene e delle comunità locali”. Affermano inoltre che questa percentuale dovrebbe peraltro essere più elevata.
Ana Di Pangracio, avvocato specialista in problematiche ambientali del comitato consultivo di Women4Biodiversity, vale a dire una delle parti dei negoziati della CBD che ha peraltro apportato contribuiti al documento di lavoro, ha affermato che la mancanza di impegni riguardanti i diritti umani nell’accordo di Aichi è stata una delle principali ragioni per cui il mondo non è riuscito a raggiungere nessuno degli obiettivi fissati.
“Non ha tenuto conto dei ruoli e dei contributi che possono offrire i vari titolari di diritti, quali i popoli indigeni, le comunità locali, le donne e i giovani”, ha affermato Di Pangracio aggiungendo che la conservazione deve essere un processo inclusivo e basato sulla partecipazione.
Di Pangracio, che è anche vice presidente dell’ONG ambientalista FARN con sede in Argentina, sottolinea la necessità di includere i diritti delle donne e delle ragazze nel quadro globale per la biodiversità post-2020.
È sempre più evidente che le donne e le ragazze non devono solo affrontare minacce diverse legate alla perdita di foreste, come la maggiore violenza basata sul genere causata dall’intensificazione della concorrenza dovuta alla scarsità delle risorse, ma hanno anche punti di vista diversi in materia di conservazione in quanto utilizzano la foresta e stabiliscono priorità in modo diverso rispetto agli uomini. “Tutto questo è stato finora pressoché ignorato” dai politici, ha affermato Di Pangracio.
Sia Ramos che Di Pangracio ritengono che un’altra priorità significativa per il quadro globale per la biodiversità post-2020 consista nell’individuare e arrestare i fattori industriali che causano la perdita di biodiversità, quali le attività estrattive e l’espansione dell’agricoltura su larga scala. È anche essenziale che questa volta gli Stati attuino realmente le politiche, sostiene Di Pangracio.
In Ecuador, Santi ha dichiarato che le popolazioni di Sarayaku continueranno a “esercitare pressione sullo Stato su vari fronti”, “affinché riconosca non solo il territorio di Sarayaku, ma tutti i territori dei popoli indigeni che attualmente si occupano di ogni cosa, ad esempio della gestione e della conservazione, e propongono alternative concrete”, ha aggiunto.
Immagine del banner: alberi secolari della comunità di Sarayaku, che si trova nell’Amazzonia ecuadoriana. Foto gentilmente fornita da Patricia Gualinga.
Articolo originale: https://news-mongabay-com.mongabay.com/2021/05/human-rights-must-be-at-heart-of-new-biodiversity-framework-experts-say/