- I nostri oceani sono fonte di cibo per migliaia di popolazioni in tutto il mondo. Il nostro appetito però ha avuto per centinaia di anni un effetto deleterio sull’ecosistema marino.
- Menti creative sono sempre alla scoperta di modi più nuovi e più ecosostenibili per sfamare il mondo andando a scovarli in aree oceaniche insolite.
- Eccovi 10 alimenti marini che non avrete mai sentito nominare ma che presto potreste trovare nei menu o nella corsia di un grande negozio.
Se vivete in città o comunque lontano dall’oceano, la parola ’pesce’ potrebbe lasciare poco spazio alla vostra immaginazione: filetto di pesce al forno, curry di gamberi granchi o pesce, rotolini di sushi rivestiti da alga, o, se ve lo potete permettere, uova di caviale.
Tuttavia, la dispensa oceanica ha molto di più da offrire: da parti di piante marine e di animali che non ci si aspetta siano commestibili, ad alimenti marini familiari trasformati in sorprendenti prelibatezze culinarie. Alcuni di questi cibi marini stanno per fare capolino nei menu dei ristoranti principali e nelle corsie dei grandi supermercati, cibo questo che potrebbe ridurre lo stress sui nostri oceani.
Eccovene 10:
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Grano del mare
Sì, avete letto bene: proprio come i costosi ed estesi campi di riso, grano, chia, quinoa e segale sulla terra, sott’acqua crescono delle distese di grano. In uno studio pubblicato sul Science nel 1973, i ricercatori hanno descritto come i Seri, una popolazione indigena che vive lungo il Golfo della California, nello stato messicano del Sonora, abbiano per generazioni coltivato il grano ricavato dalla zostera (Zostera marina), un tipo di pianta che fiorisce sotto le acque marine. Dopo il raccolto, i Seri trasformano questo grano in farina, proprio come i popoli di tutto il mondo fanno con il grano e il riso. Asciugata e trebbiata l’erba, ne raccolgono i semi che vengono poi tostati e polverizzati per trasformarli in farina. Mescolano dunque la farina nell’acqua e insaporiscono l’impasto con del miele, con i semi oleosi di altre piante e, talvolta, con l’olio di tartaruga marina.
Attualmente, in Spagna, uno chef premiato da Michelin, Ángel León si è posto l’obiettivo di rendere popolare il grano della Z. marina tra i palati cittadini. Dopo essersi guadagnato un nome nell’universo gastronomico per avere dato risalto ad alimenti marini sconosciuti nel menu del suo ristorante di Cádiz, Aponiente, León si è unito in partnership con i ricercatori marini della Università di Cádiz e con il governo della regione per cercare di coltivare la zostera nelle paludi salmastre della città. L’obiettivo di León, secondo il Time, è di usare la zostera per fare il pane, l’olio e addirittura fermentarla per ricavarne il sakè. Riuscire a garantire le condizioni di acqua, temperatura e salinità necessarie per far crescere la zostera potrebbe apportare altri benefici: potrebbe contribuire al recupero delle distese di zostera che stanno scomparendo in tutto il mondo e che sono dimora di tartarughe marine, ippocampi e altri animali marini. Inoltre, dal momento che la zostera non richiede acqua dolce per crescere, le sue distese potrebbero contribuire a sostenere la produzione alimentare in un futuro in cui l’acqua potrebbe scarseggiare, sequestrando anche gli eccessi di carbonio, ha spiegato al the Guardian Leon.
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Tartufi marini
I tartufi, quei costosi funghi terrosi e pungenti che sono sinonimo di cena raffinata, hanno un omologo oceanico. Vi presento Vertebrata lanosa, un’alga rossa che alcuni chef hanno soprannominato tartufo marino. Queste alghe ispide, il cui sapore e odore si dice ricordano molto quello dei tartufi con richiami oceanici, crescono notoriamente soprattutto sulle alghe di acqua fredda Ascophyllum nodosum nelle spiagge delle Isole Britanniche e in paesi quali l’Islanda, la Norvegia e il Canada. La gente tipicamente le coltiva a mano nell’ambiente selvatico.
Alcune aziende stanno attualmente cercando di piazzare il tartufo marino come la forma alternativa più economica e più sostenibile del tartufo regolare, laddove le alghe possono ricrescere dopo ogni raccolto. Se i ritmi naturali del loro raccolto possano tenere il passo con un fabbisogno crescente è da vedere. Alcuni ricercatori hanno fatto notare che “la crescita delle alghe della V. lanosa andrebbe valutata più dettagliatamente e per un lungo periodo di tempo per riuscire a capire come coltivarle in maniera sostenibile”.
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Caviale vegetariano
Come i tartufi, un altro cibo di lusso che ha trovato un sostituto tra le alghe è il caviale: quelle uova o mucchi di uova di pesce salati e molto costosi che possono arrivare a costare migliaia di dollari al chilo. Tipicamente, il caviale proviene da pesci di grandi dimensioni quali lo storione (della famiglia degli Acipenseridae) e il pesce spatola (della famiglia dei Polyodontidae), molti dei quali sono a rischio di estinzione. Sebbene la maggior parte del caviale oggi giorno è ricavato da pesce di allevamento, il processo di rimozione delle uova solleva qualche quesito etico e la ricerca indica che lo storione viene ancora spacciato per caviale ‘selvatico’. Altre uova di pesce vengono talvolta usate come alternative al caviale, come quelle del lompo (Cyclopterus lumpus) e del merluzzo atlantico (Gadus morhua), seppur anche queste siano specie in declino.
Si introduca il caviale vegetariano: perle gelatinose e salate ricavate da grandi alghe o dall’alga kelp quali la Laminaria hyperborean. Si spalmi del caviale di kelp sul pane tostato o lo si usi come decorazione secondo l’usanza sempre più diffusa degli chef di tutto il mondo, e avrete il sostituto vegetariano più economico delle uova di pesce, lompo e merluzzo. Il caviale di kelp ha inoltre una scadenza più lunga: fino a tre mesi dopo l’apertura, secondo Caviart, un’azienda danese che produce il caviale di kelp, scadenza questa circa tre volte più lunga del caviale di pesce una volta aperto. Che il caviale di kelp si riveli le ‘uova d’oro’ del futuro, come sostiene Caviart? Oppure, la domanda per le uova di storione sarà difficile da scuotere?
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Uova di aringa sul kelp
Vi è un’altra prelibatezza che riguarda sia il kelp sia le uova di pesce.
Si tratta del kelp rivestito dalle uova dell’aringa del Pacifico (Clupea pallasii), cibo altamente apprezzato tra le Prime Nazioni della Columbia Britannica, del Canada, così come dell’Alaska, dello stato di Washington e degli Stati Uniti.
A differenza del caviale, l’aringa non è coltivata per le sue uova. Tutt’altro, ogni anno, tra febbraio e aprile, quando questo pesce arriva nelle acque costali della B.C. (Columbia Britannica) per deporre le uova, le Prime Nazioni sospendono la pesca del kelp dove le aringhe femmine vengono a deporre migliaia di uova oppure coltivano il kelp dove le femmine depongono naturalmente le uova. Per generazioni, le Prime Nazioni hanno venduto uova di aringa alle tribù vicine. Attualmente, questi paesi lavorano e confezionano anche gran parte dei suoi prodotti croccanti per il mercato giapponese, dove sono popolari tra gli amanti del sushi.
L’aringa del Pacifico è importante non solo per le popolazioni indigene del B.C. ma anche per la fauna selvatica quali il salmone, i lupi, i leoni di mare, le lontre e gli uccelli marini che ogni anno aspettano l’arrivo in orde di questo pesce. Tuttavia, le cose non vanno bene per l’aringa. Le Prime Nazioni hanno lanciato un monito sulla decimazione di popolazioni di aringa nella costa occidentale del Canada, ordinando la moratoria della pesca commerciale di questa specie fino al recupero della loro riserva.
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Alcolico a base di kelp
Che ne dite di una birra al kelp? O magari del rum al kelp? O addirittura, di correggere il vostro cocktail insaporendolo con un tocco di kelp?
Dalla Gran Bretagna alla Svezia, U.S., Scozia e Canada, le distillerie di tutto il mondo hanno creato della birra distillata e insaporita con il kelp; e non soltanto la birra. I produttori di alcolici sperimentano con rum e gin infusi di kelp e whiskey invecchiato in barili affumicati con alghe. Il kelp inizia ad essere usato anche in cocktails quale il martini.
Parliamo tanto di kelp qui, e ciò perché questo tipo di alga è estremamente versatile e può essere coltivata facilmente lungo le battigie. Infatti, paesi come la Cina, il Giappone e la Corea del sud hanno coltivato le alghe, tra cui il kelp, per centinaia di anni. Queste alghe grandi fanno bene al clima dal momento che assorbono gli eccessi di carbonio dall’atmosfera, deacidificano l’oceano e non hanno bisogno di fertilizzanti. Inoltre, possono essere raccolte, lavorate ed usate in un’ampia gamma di alimenti: dalla farina per fare le torte, ai sottaceti, al kimchi, alle zuppe e ora anche alle bevande alcoliche.
- Jerky di pesce
Avete presente quei filetti di pesce così perfetti da poter essere stati ordinati al ristorante? Il procedimento di filettatura produce una tonnellata di scarti, non solo la testa e le ossa ma anche tutte quelle parti che non sono della forma e dimensione desiderate. Questi scarti possono essere usati nel mangime per gli animali o nei fertilizzanti, oppure essere buttati. E se si potessero trasformare questi pezzi ‘indesiderati’ ma perfettamente commestibili in snack saporiti? Questo è proprio quello che Nick Mendoza, ex scienziato marino, è riuscito a fare con la sua serie di jerky di pesce.
Dopo tante prove per creare un prodotto che abbia “il sapore, la consistenza e l’ aroma del jerky di manzo”, la sua azienda, NeptuneSnacks, vende ora jerky derivato dal pesce bianco che viene catturato nelle coste occidentali degli Stati Uniti dai piccoli pescatori artigianali. Con una passione per la riduzione degli scarti di cibo e delle inefficienze lungo la catena di fornitura del pesce, Mendoza sostiene che il suo jerky di pesce sia sostenibile e tracciabile. La sua azienda utilizza gli scarti di pesce provenienti da aziende di pesca che hanno la certificazione del Marine Stewardship Council, uno strumento di certificazione volontaria che fissa gli standard di sostenibilità. Poi, lavorano e manifatturano i loro prodotti a Seattle, cioè non molto lontano. Inoltre, NeptuneSnacks procura un codice QR sulla confezione dei loro jerky attraverso cui il consumatore può leggere dove il pesce ivi contenuto è stato catturato e da chi.
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Tesori ‘indesiderati’
Gli sparidi (Stenotomus chrysops), i pesci balestra (famiglia degli Balistidae), i pesci dal ventre argenteo (Gerres spp.), i pesci lucertola (famiglia degli Synodontidae), le aguglie o pesci ago (famiglia degli Belonidae). Non capita tutti i giorni di vedere tali creature marine esposte nei mercati del pesce, nei freezer dei supermercati o elencati nei menu dei ristoranti. Spesso catturati per sbaglio dai pescatori che cercano specie più popolari, questi pesci tendono ad essere classificati come di basso valore, non desiderabili o addirittura ‘immondizia’. Così, questi animali vengono di solito buttati via oppure impiegati nel mangime per animali o per pesci. Tuttavia, un po’ dappertutto nel mondo, vi è una crescente tendenza a diversificare i nostri palati di pesce includendo questi animali marini indesiderati, molti dei quali sono altrettanto buoni quanto i pesci più popolari sebbene non li abbiate mai sentiti nominare. Inoltre, sono spesso più facilmente reperibili e in numero maggiore rispetto alle più limitate varietà di pesce eccessivamente pescato.
In India, ad esempio, il geografo marino Divya Karnad ha fondato InSeason Fish, un’attività collettiva volta a favorire la conoscenza di quelle varietà di pesce non minacciate e poco conosciute che possono essere mangiate mensilmente in maniera sostenibile. I materiali educativi del gruppo indirizzano l’interesse dei consumatori verso specie quali i pesci dal ventre argenteo, i pesci lucertola e le acciughe (famiglia degli Engraulidae), distogliendoli da cibi più popolari ed eccessivamente pescati come il pesce veggente (Scomberomorus guttatus) e il pomfret (della famiglia dei Bramidae).
In altre parti del mondo gli chef fanno da guida. Chef León, ad esempio, ha basato il suo intero menu su pesci che verrebbero altrimenti buttati, come il pesce pandora, il krill, l’orata e lo sgombro.
Come dice il proverbio, la spazzatura di un uomo è un altro tesoro.
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Mangiare gli invasori
Un modo per far fronte al problema del numero incontrollabile degli organismi invasori, quelle specie introdotte in nuove regioni dall’azione accidentale o deliberata dell’uomo, è di mangiarle. Il pesce leone (Pterois volitans e P. miles) è il testimonial di questa narrativa. Se vivete negli Stati Uniti, avrete forse mangiato questo pesce spinoso dalla testa punk. Originario degli oceani indiano e del Pacifico meridionale, il pesce leone si è stabilito nell’Atlantico, dove non ha predatori noti e divora specie di pesci nativi. E così, sollecitati dalla Amministrazione Nazionale Oceanica e Atmosferica, gli chef hanno iniziato a servire il pesce leone nei loro ristoranti, mentre i suoi filetti riempiono i negozi di alimentari quali l’Whole Foods.
C’è chi trasforma molti altri invasori marini in prelibatezze culinarie. Chef Bun Lai, ad esempio, ha creato un suo menu basandolo sulle specie di invasori. Miya’s, il suo ristorante di famiglia nel Connecticut, serve pesce leone ma anche specie di pesce che agiscono come invasori in altre aree, quale il granchio ripario asiatico (Hemigrapsus sanguineus) originario dell’Oceano Pacifico Occidentale, il granchio verde (Carcinus maenas) originario dell’Europa Atlantica e del Nord Africa, e la pervinca (Littorina littorea), una lumaca originaria dell’Europa.
L’idea è quella di creare una domanda culinaria per le specie di invasori in modo da causarne il collasso favorendo così il recupero delle specie native. Dopo tutto, gli esseri umani hanno pescato eccessivamente diverse specie, quali l’aringa del Pacifico e il merluzzo dell’Atlantico, fino all’estinzione. Tuttavia, alcuni scienziati avvertono che mangiare le specie di invasori potrebbe non sortire l’effetto desiderato per diverse ragioni. Per esempio, non è sufficientemente dimostrato come questa strategia possa eradicare le specie invasive, che tipicamente tendono ad avere tassi di riproduzione alti, spiegano i ricercatori. Inoltre, creare una domanda per le specie invasive può creare un incentivo per il mantenimento della loro popolazione o addirittura causarne la diffusione in altre aree.
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9. Mangiamo pesce di allevamento, ma questo a sua volta cosa mangia?
La maggior parte del pesce mangiato nel mondo, precisamente più della metà, proviene dagli allevamenti di pesce o acquaculture. Ciò dovrebbe ridurre la pressione sui nostri oceani, ma vi è un problema: proprio come gli animali allevati sul suolo, i pesci di allevamento hanno bisogno di essere nutriti. Gran parte di quel che mangiano proviene dal mangime e dall’olio di pesce che a loro volta derivano dagli animali selvatici marini quali le acciughe, le sardine, i krill e lo sgombro, ossia le stesse specie su cui i predatori quali gli uccelli marini, i più grossi pesci carnivori e i cetacei dipendono, così come le comunità locali di pescatori. Dunque, c’è chi cerca delle alternative. Si potrebbero usare le proteine dalle colture di grano e mais ma questi non hanno lo stesso profilo nutritivo ideale di cui hanno bisogno i pesci.
Altre opzioni stanno intanto emergendo: insetti e batteri!
In Kenya, ad esempio, l’imprenditrice Talash Huijbers ha fondato InsectiPro, una fattoria che alleva mosche soldato nero (Hermetia illucens) e le loro larve per poi venderle come mangime per pesci. La stessa cosa fanno altre fattorie come la Protix che ha sede nei Paesi Bassi e l’AgriProtein che ha sede nel sud Africa.
Ci sono poi i batteri. Utilizzando tecniche di fermentazione e tecnologie moderne, aziende quali la KnipBio che ha sede nel Massachusetts e la Feedkindche che ha sede in California producono proteine derivate dai batteri per usarle come mangime per pesci.
Se il mangime per pesce derivato da insetti e batteri diventa popolare, il nostro pesce e gamberetto di allevamento potrebbero diventare opzioni più sostenibili di quello che sono attualmente.
- Gelatina di mare
L’oceano ci offre del cibo ma anche un mare di ingredienti, molti dei quali possono essere estratti dagli scarti delle aziende che lavorano il pesce. Procedimenti quali la rimozione delle teste e dei gusci, la rimozione delle pinne e delle scaglie, lo sventramento e la filettatura possono generare dei rifiuti pari al 50% del peso dell’animale. Perché mai buttare via parti che potrebbero essere trasformate in ingredienti utili?
Ad esempio, l’olio di pesce è un ingrediente marino molto usato che viene introdotto negli integratori alimentari e nei mangimi per animali. Pensiamo anche alla carragenina, un altro noto additivo alimentare che viene estratto da una specie di alga rossa per essere usato come addensante in una serie di prodotti quali il gelato, il burro di arachidi e il pudding.
Un altro ingrediente marino che mira a rimpiazzare un prodotto di derivazione terrestre è la gelatina. Usato per addensare e stabilizzare alimenti quali le marmellate, le zuppe e le salse, la gelatina deriva solitamente dalle ossa, dalla pelle e dal tessuto connettivo del bestiame terrestre, quali i bovini e gli ovini. L’utilizzo di questi animali però comporta questioni di ordine climatico, religioso e salutistico. Perciò, gli scarti degli animali marini potrebbero offrire un’alternativa sostenibile, creando la gelatina dagli scarti provenienti dalla rimozione delle scaglie di specie quali i dentici e la tilapia rossa, dagli scarti delle pinne provenienti dalla lavorazione del tonno in scatola e dai rifiuti solidi del surimi, il falso granchio.
Il mercato globale della gelatina di pesce ha visto una crescita costante, si legge nel rapporto pubblicato dall’Allied Market Research, azienda che ha sede a Portland nell’Oregon, secondo le cui previsioni questo mercato potrebbe fruttare 496,3 milioni di dollari entro il 2030, e fino a 276,1 milioni di dollari nel 2020. Tuttavia, ci sono delle difficoltà nel popolarizzare la gelatina di pesce in industrie quali quelle alimentare e farmaceutica, sostiene uno studio recentemente pubblicato sul Nature. Il procedimento di estrazione non è attualmente dei più puliti. Inoltre, la gelatina di pesce richiede un trattamento diverso rispetto alla carne di manzo e alla carne ovina. Per esempio, la gelatina estratta dal pesce si scioglie a temperature più basse rispetto alle suddette carni e, come è prevedibile, ha un forte sapore di pesce.
Ma se non vi spiace l’idea di una gelatina che si scioglie in bocca lasciandovi un sapore di pesce, perché non provarla?
Shreya Dasgupta è una scrittrice scientifica indipendente con sede a Bangalore, in India. La potete seguire su Twitter via @ShreyaDasgupta.
Articolo originale: https://news-mongabay-com.mongabay.com/2022/02/ten-unexpected-edibles-from-our-oceans/