- Pregiudizi impliciti di genere e razza sono rilevanti all’interno della comunità scientifica dedicata alla conservazione ambientale come lo sono altrove, dicono gli esperti, e potrebbero danneggiare l'efficacia del lavoro svolto, in particolare nei Paesi in via di sviluppo.
- Gli scienziati, prevalentemente uomini e occidentali, che lavorano in questo campo potrebbero escludere importanti contributi da parte di ricercatori e professionisti locali nei Paesi tropicali in via di sviluppo, oltre a impedire una varietà di prospettive nella letteratura scientifica.
- I ricercatori suggeriscono che creare un team eterogeneo ed essere inclusivi in ogni fase, specialmente nel processo decisionale di un progetto di conservazione, sono alcuni dei modi per risolvere questi pregiudizi.
KUCHING, Malesia – I pregiudizi impliciti di genere e razza all’interno della comunità dedicata alla conservazione ambientale potrebbero compromettere il lavoro dei ricercatori sia sul campo che nella pubblicazione scientifica, affermano gli esperti.
“Una delle cose che sentiamo sempre dire è che la scienza è imparziale”, ha detto Emilio Bruna, professore di ecologia e conservazione della fauna selvatica presso l’Università della Florida, durante una tavola rotonda alla conferenza dell’Associazione per la biologia e conservazione tropicale a Kuching, in Malesia, lo scorso 2 luglio.
“È un’affermazione ambiziosa”, ha aggiunto Bruna, “ma la scienza è fatta da persone, e le persone sono prevenute”.
La comunità della scienza della conservazione ambientale che lavora nei Paesi tropicali è stata ampiamente criticata per la rappresentazione squilibrata di genere e razza, dominata com’è dagli uomini provenienti dai Paesi sviluppati.
Durante la discussione a Kuching, i relatori hanno suggerito che questa mancanza di equilibrio nella comunità potrebbe portare a fallimenti nei lavori di tutela nei Paesi tropicali in via di sviluppo.
Bruna, che è anche editore della rivista scientifica BioTropica, ha citato un rapporto del 2017 condotto da Johanna Espin, una ricercatrice di sociologia e criminologia all’Università della Florida, nel quale viene mostrata una persistente mancanza di rappresentanza internazionale all’interno dei comitati editoriali della biologia ambientale. Ha inoltre citato uno studio del 2014 condotto da Alyssa Cho, una ricercatrice di agronomia presso la stessa università, che riportava la sotto-rappresentazione delle donne nei consigli di redazione delle riviste scientifiche dedicate a questa disciplina. Bruna ha partecipato ad entrambe le relazioni.
Durante la stesura della relazione nel 2014, Bruna ha sottolineato che dalle riviste esaminate dal suo team sono risultati più di 4.200 primi autori. Hanno scoperto che molti di questi autori si trovavano nel sud del mondo, ma proprio in quell’anno, risultavano più editori provenienti da Paesi Bassi, Svezia e Nuova Zelanda rispetto che da Cina, Brasile e Messico.
Bruna ha notato che l’Olanda “era eccessivamente rappresentata”, con 40 redattori, mentre c’erano solo 15 persone provenienti dal Brasile e nove dal Messico nei consigli di redazione.
“Le persone tendono ad auto-aggregarsi, tendono a lavorare, convivere e passare il tempo con persone che sono simili a loro – questo riguarda anche la comunità scientifica – le persone tendono a collaborare con persone che hanno una prospettiva simile”, ha spiegato Bruna.
“In quanto redattori [di riviste scientifiche], influenziamo la direzione del settore, sia scegliendo a chi permettiamo di entrare in questa comunità di studiosi, sia attraverso la nostra prospettiva su ciò che riteniamo sia interessante, importante e rilevante”, ha affermato.
Cecilia Dahlsjö, ricercatrice post-dottorato in ecologia tropicale presso l’Università di Oxford, ha condotto un sondaggio tra i partecipanti alla conferenza ATBC prima che l’evento iniziasse. Dei 281 intervistati, il 53% si è identificato come donna, il 41% di sesso maschile, e il resto ha scelto di non identificare il proprio genere.
La maggior parte delle donne intervistate, molto più delle loro controparti maschili, ha dichiarato che il genere ha avuto un impatto sulle loro opportunità, e di aver provato l’esperienza di sentirsi minacciate o in pericolo sul posto di lavoro.
Durante la discussione, Dahlsjö ha anche letto un commento di un’intervistata, dichiaratasi una professoressa, che ha detto: “In più occasioni ho subito avance sessuali sul campo e/o sul posto di lavoro che mi hanno fatta sentire a disagio e impotente”.
“Quindi, da un lato, abbiamo datori di lavoro che si vogliono impegnare, abbiamo politiche verso l’uguaglianza di genere, ma allo stesso tempo la maggioranza di voi [partecipanti] afferma che i vostri datori di lavoro non si comportano abbastanza bene”, ha affermato Dahlsjö.
“Non è solo la politica – le politiche ci sono – e anche se queste potessero mettere le donne in posizioni di potere, se sono costantemente soggette a pregiudizi di genere, se non sono rispettate o si sentono minacciate, come potranno mai essere capaci di prosperare?” ha aggiunto.
“Tutto questo avrà un impatto sulla capacità delle donne di prendere decisioni, di svolgere il proprio lavoro, accrescere la propria posizione, ma anche sulla loro capacità di ispirare altre donne ad arrivarci”, ha affermato Dahlsjö.
La discussione ha anche evidenziato il ruolo limitato che ricercatori e professionisti locali ricoprono nelle attività di conservazione che si svolgono nei Paesi in via di sviluppo tropicali.
La discussione ha anche evidenziato il ruolo limitato che ricercatori e professionisti locali ricoprono nelle attività di conservazione che si svolgono nei Paesi in via di sviluppo tropicali.
“Molti scienziati e professionisti stranieri, specialmente occidentali, i bianchi … a volte hanno un atteggiamento paternalistico e condiscendente nei confronti delle popolazioni locali [ricercatori e professionisti] dei Paesi in via di sviluppo tropicali”, ha spiegato Aziz.
“Ho sentito molte volte persone [ricercatori e professionisti stranieri] parlare di rafforzamento delle capacità e di responsabilizzare la popolazione locale, ma anche quella narrativa a volte arriva con una sorta di atteggiamento paternalista. Parte dal presupposto, molto spesso diffuso nei Paesi occidentali, che noi [ricercatori e professionisti stranieri] dobbiamo aiutarli [ricercatori e professionisti locali], dobbiamo guidarli e aiutarli a farli crescere”.
Aziz ha anche detto che la voce dei ricercatori e dei professionisti locali è stata spesso trascurata nel processo di pianificazione di progetti di conservazione che riguardano i loro villaggi o paesi.
“Abbiamo conoscenze ed esperienze uniche che sono preziose per l’ecologia e la conservazione tropicale. Conosciamo meglio il nostro paese, conosciamo la nostra cultura e i nostri problemi al meglio, sappiamo quali soluzioni funzioneranno e quali non”, ha affermato.
Per affrontare questo problema, Bruna ha chiesto alla comunità scientifica di iniziare a comprendere e discutere di più su questi pregiudizi impliciti.
“Una delle cose che dovremmo iniziare a fare è comprendere un po’ di più questi pregiudizi in modo da poter imparare come mitigarli e come affrontarli mentre cerchiamo un modo più equo di condividere con il resto del mondo le informazioni che elaboriamo”, ha detto.
“Ci sono abbondanti prove provenienti da studi di organizzazioni e settori privati [che dimostrano] che team più variegati sono più efficienti, escogitano soluzioni più creative di fronte ai problemi e sono più produttivi”, ha detto Bruna. E questo vale anche per il nostro angolo di mondo.”
Secondo Bruna, un altro aspetto importante è la formazione degli scienziati locali dei paesi in via di sviluppo nel guidare la stesura di articoli scientifici.
“Abbiamo esaminato 1,25 milioni di articoli scientifici, e abbiamo esaminato quanti Paesi … erano rappresentati nell’elenco degli autori, e ci sono due modelli molto chiari: il più importante è che più Paesi sono presenti nella lista di autori, più citazioni otterrà il lavoro, e più alto sarà il livello della rivista in cui la ricerca verrà pubblicata. E questo riguarda anche altri aspetti. In poche parole, rende la scienza migliore”.
Dahlsjö ha suggerito di affrontare prima di tutto l’uguaglianza di genere in casa propria, perché è un fattore fortemente legato allo squilibrio di genere sul posto di lavoro.
“Penso che trascuriamo i pregiudizi di genere all’interno della nostra stessa casa che credo siano molto legati agli stereotipi, e ritengo sia qualcosa di cui parlare e a cui pensare molto di più”, ha detto.
Aziz ha dichiarato che la presenza nei consigli decisionali di rappresentanti di un gruppo eterogeneo è stata fondamentale per ridurre i pregiudizi impliciti nell’ambito della conservazione.
“Si ritorna al fatto che molte delle voci che vengono escluse, sono voci preziose. E abbiamo bisogno di quelle voci e di quella conoscenza, specialmente quando si parla di conservazione. Se si escludono quelle voci preziose dalla narrativa, dai processi, allora ci si sta essenzialmente privando di quella preziosa conoscenza che può aiutare a essere più efficace in quello che si sta cercando di raggiungere”, ha dichiarato Aziz.
“Noi che proveniamo dai Paesi in via di sviluppo [tropicali] dovremmo essere più presenti nei consigli di amministrazione, nelle commissioni, dovremmo essere più coinvolti nel processo decisionale, essere consultati e resi partecipi come partner allo stesso livello fin dall’inizio, e non solo come un ripensamento, giusto per spuntare una casella “, ha concluso.
Author’s note 7/9/2018: Nota dell’autrice 9/7/2018: Modifiche minori alla presentazione delle opinioni di Sheema Abdul Aziz sono state fatte in risposta al chiarimento di Aziz.