- Il riscaldamento della regione del Mediterraneo è del 20% più rapido rispetto al mondo nel suo complesso e ciò è fonte di preoccupazione per quanto riguarda gli impatti che i cambiamenti climatici e gli altri cambiamenti ambientali avranno sugli ecosistemi, sull'agricoltura e sui 542 milioni di persone che vivono nella regione.
- Le ondate di caldo, la siccità, le condizioni meteorologiche estreme e l'innalzamento del livello del mare rientrano tra i fenomeni che possono continuare a verificarsi nella regione lungo tutto l'arco del secolo e l'incapacità di fermare le emissioni di diossido di carbonio e di altri gas serra potrebbe peggiorarli.
- Stabilire l'approccio da seguire al fine di mitigare i cambiamenti climatici e favorire al contempo l'adattamento ai suoi effetti è reso ulteriormente più complesso dalla varietà di paesi, culture e aspetti socioeconomici del Mediterraneo, il che porta ad ampi divari in termini di vulnerabilità nella regione.
Il Mediterraneo è una sorta di culla (delle civiltà, dell’agricoltura e della storia). La regione, che si estende tra l’Europa meridionale e Sud-orientale, il Medio Oriente e il Nord Africa costituisce però anche un crogiuolo in cui varie culture e religioni, oltre a situazioni caratterizzate da povertà e ricchezza estreme, si sono intrecciate e scontrate nel corso dei secoli. Oggi, nonostante i millenni di resilienza dinanzi a minacce e tragedie, il futuro della regione sembra incerto in quanto si trova ad affrontare molti cambiamenti ambientali che si registrano solo in pochi altri luoghi della Terra.
Tra i cambiamenti radicali della regione si conta un marcato riscaldamento climatico che si aggiunge a una serie di tendenze destabilizzatrici a livello politico, socioeconomico e storico nonché aggravato da tali tendenze. In tutta la regione, la vivace diversità culturale, ambientale e degli stili di vita rende più difficile l’adattamento a queste sfide in corso e in fase di accentuazione come pure la possibilità di riconoscerle e di farvi fronte.
“Indipendentemente dal modo in cui vengono esaminati i cambiamenti climatici su scala regionale, non è semplice […] inquadrare il problema in una panoramica complessiva”, ha dichiarato a Mongabay Pietro Lionello, climatologo e professore presso l’università del Salento. Nel Mediterraneo, la situazione è sconcertante.
In una relazione del febbraio 2022, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) ha annunciato che le temperature nell’area del Mediterraneo stanno aumentando di circa il 20% più rapidamente rispetto alla media globale. Le medie regionali superano già di 1,5 °C i livelli preindustriali. Dal punto di vista mondiale, l’incremento è stato meno marcato e pari a circa 1,1-1,3 °C. Anche se gli esseri umani non dovessero produrre più emissioni e gas a effetto serra, la temperatura nel Mediterraneo sarà probabilmente maggiore di 2-4 °C rispetto al XIX secolo entro il 2100.
Una parte di ciò che sta alla base dell’aumento a livello regionale è semplice da spiegare, afferma Wolfgang Cramer, specialista di geografia ambientale e di ambientalismo globale presso l’università di Aix-Marseille, nel Sud della Francia. Tre continenti che trattengono il calore (Europa, Asia e Africa) avvolgono la regione dell’omonimo mare e le masse terrestri continentali tendono a riscaldarsi più velocemente rispetto alle aree della Terra caratterizzate dalla presenza di molta acqua, spiega Cramer. “È una pura questione di fisica”, dice.
In un certo senso, la situazione del Mediterraneo non è l’unica al mondo, afferma Lionello. “La temperatura della maggior parte delle regioni [terrestri] del mondo sta aumentando più velocemente rispetto alla media mondiale”, aggiunge. “Ciò complica la gestione del problema”.
Nel corso del secolo, la popolazione umana numerosa e variegata sotto il profilo socio-economico che vive nella regione composta da oltre 540 milioni di persone dovrà vedersela con temperature climatiche in rapido aumento. Dovrà anche trovare modalità per far fronte agli altri problemi che si stanno manifestando in quest’area quali le minacce alla biodiversità, l’elevato inquinamento, la crescente aridità e il maggiore degrado del suolo. I climatologi, i sociologi e i professionisti dello sviluppo stanno già facendo i conti con questa preoccupante serie di problematiche con la speranza di trovare soluzioni o almeno un modo per consentire alla culla delle civiltà di resistere.
Interazione di cambiamenti senza precedenti
I cambiamenti climatici costituiscono uno dei nove confini planetari teorizzati dagli scienziati presso il Centro sulla resilienza di Stoccolma nel 2009. Tali soglie fungono, interagendo l’una con l’altra, da possibili limiti ai processi naturali che favoriscono la vita sulla Terra. Le ricerche suggeriscono che le attività umane abbiano già superato tutti questi confini in varia misura e che ciò abbia iniziato a destabilizzare i processi stess.
Un confine sta già facendo suonare campanelli di allarme preoccupanti: abbiamo ampiamente superato la soglia di sicurezza relativa al livello di carbonio tollerabile dall’atmosfera riguardo al riscaldamento climatico. Ciò significa che siamo entrati in una “zona di incertezza”, caratterizzata da maggiori rischi futuri per le civiltà, l’umanità e la vita sulla Terra così come la conosciamo.
Gli scienziati concordano sul fatto che la riduzione e, in ultima analisi, l’arresto dei flussi di gas serra resta fondamentale. Ciò che il Centro sulla resilienza di Stoccolma, l’IPCC e altri istituti scientifici sostengono sempre più sta nel fatto che l’umanità deve prepararsi all’accentuazione degli effetti legati al clima che si verificheranno quasi certamente nei rimanenti decenni del XXI secolo.
Secondo l’idrologo Yves Tramblay una domanda cruciale è la seguente: quando raggiungeremo, noi esseri umani, la soglia oltre la quale non saremo più in grado di adattarci?
“Questo tipo di cambiamenti può essere drastico e repentino”, sostiene in un’intervista Tramblay, dell’istituto francese della ricerca per lo sviluppo. «Sostanzialmente, non conosciamo il “punto di non ritorno” sufficientemente [bene] per poter dire, “OK, sarà tra 20 o 40 anni”».
La sfida dell’identificazione dei punti di non ritorno è di carattere globale oltreché regionale, specialmente in luoghi come l’Artico, in cui la velocità di riscaldamento è maggiore rispetto a qualsiasi altro luogo terrestre. In tal senso, il Mediterraneo in rapida mutazione non è un caso isolato. La parte difficile nell’individuazione delle soglie sta nel fatto che sono spesso molto più semplici da identificare in modo retrospettivo piuttosto che nel presente.
Ciò è dovuto in parte al fatto che i nove confini planetari non vengono superati uno alla volta e, a complicare ulteriormente la situazione, i livelli di CO2 in aumento nell’atmosfera influiscono sugli altri confini planetari nella regione del Mediterraneo. Gli scienziati sanno che la perdita di biodiversità a livello globale ha già destabilizzato l’integrità della biosfera, con gravi impatti nel Mediterraneo. Analogamente, la CO2 dissolta ha aumentato l’acidità dell’acqua del Mar Mediterraneo, il che ha ridotto ad esempio le popolazioni di molluschi, danneggiando di conseguenza il settore della pesca basato sulla loro raccolta. Nel frattempo, le pratiche agricole utilizzate da molto tempo e, in alcuni casi, non sostenibili hanno alterato l’equilibrio biologico, geologico e chimico del suolo, rendendolo meno resiliente. In alcune parti della regione, il livello delle acque dolci hanno raggiunto soglie minime critiche, in quanto gli agricoltori, le città in espansione e il fiorente settore del turismo attingono tutti agli stessi bacini in esaurimento.
“Gli effetti si stanno aggravando l’uno con l’altro”, afferma Tramblay, con la conseguente accentuazione degli effetti dei cambiamenti climatici complessivi.
La regione continuerà ad affrontare in futuro le conseguenze prodotte dai cambiamenti climatici inevitabili, ma c’è meno certezza sul luogo e sul momento in cui si verificheranno. Ciononostante, Lionello afferma che, nel corso del tempo, i risultati delle ricerche svolte in passato e dei modelli relativi al futuro del nostro pianeta sono sempre più in linea tra loro. Ciò ha ridotto il margine di incertezza e aiutato gli scienziati a prevedere in modo più accurato il futuro del Mediterraneo.
Verso il deserto
I dati sono indiscutibili: la regione del Mediterraneo già secca sta diventando ancora più arida. In uno studio del 2016 pubblicato nella rivista Science, Cramer e un suo collega hanno rilevato che un incremento della temperatura superiore a 2 °C dall’inizio della rivoluzione industriale sarebbe il primo a verificarsi negli ultimi 10.000 anni. Si tratta di una svolta epocale che l’IPCC ritiene probabile nella regione del Mediterraneo entro la fine del secolo, se non prima. Tale ricerca suggerisce che i cambiamenti climatici di tale portata trasformeranno vaste aree della Spagna meridionale in deserti. Una vegetazione ricca di arbusti sostituirà le foreste di latifoglie che a loro volta si sposteranno lungo i pendi, causando lo spostamento degli ecosistemi alpini a base di conifere.
Da un punto di vista più generale, la minore quantità di pioggia durante l’estate in molte parti della regione causerà siccità che porteranno alla perdita dei raccolti nonché a incendi più intensi e più frequenti. In un apparente paradosso, gli scienziati prevedono una situazione caratterizzata da un aumento delle precipitazioni del 4% per ogni 1 °C di aumento della temperatura e dal verificarsi di molte precipitazioni durante stagioni invernali più brevi. Pertanto, mentre la regione diviene complessivamente più secca, la pioggia che cade in occasione di precipitazioni più brevi e concentrate potrebbe provocare frane, alluvioni e fenomeni di erosione che privano il suolo dei minerali fondamentali per la produzione agricola.
Secondo una ricerca, in caso di scenari futuri estremi in cui gli esseri umani non riuscissero a ridurre drasticamente le emissioni di gas a effetto serra, la probabilità di gravi alluvioni, come quella che ha gonfiato la Senna in Francia nel 2016, potrebbe raddoppiare.
Oltre a tali alluvioni stagionali, l’aumento dei livelli del mare nella regione minaccia gli insediamenti umani sorti centinaia di anni fa nelle fasce costiere del Mediterraneo caratterizzato dalla relativa assenza di mareggiate e solitamente simile a un lago. Tale incremento del livello del mare potrebbe portare alla distruzione di zone acquatiche costiere rilevanti da un punto di vista ecologico. Il livello del Mar Mediterraneo è aumentato di 6 centimetri solo negli ultimi due decenni e tale tendenza sta accelerando. L’IPCC osserva che le aree poste ad altitudini minori, in cui vivono circa 42 milioni di persone, costituiscono il 37% dei litorali. Le aree costiere in cui la popolazione è in aumento, ad esempio la parte occidentale del Nord Africa, saranno probabilmente più colpite a causa dell’aumento del livello del mare. Una ricerca pubblicata nel 2021 sulla rivista Nature ha altresì messo in relazione l’elevato livello del mare all’aumento delle mareggiate nel corso degli ultimi 60 anni, quale ulteriore minaccia per gli insediamenti costieri.
In mare, così come sulla terraferma, le ondate di calore renderanno probabilmente più difficile la vita per gli esseri umani, la flora e la fauna. L’acqua più calda potrebbe causare la perdita di biodiversità, anche tra gli stock ittici che hanno costituito l’alimentazione delle civiltà per millenni. Tale riscaldamento altera gli habitat delle specie marine e le porta alla morte: secondo uno studio del 2009, nel 2003, un’ondata di calore nell’ecosistema marino ha causato la morte in massa di oltre due decine di specie di invertebrati lungo la costa spagnola. Tali habitat offrono numerosi servizi ecosistemici invisibili ma fondamentali per gli esseri umani, che vanno dall’offerta di cibo e acqua potabile alla protezione delle fasce costiere.
Nel tentativo di sopravvivere, alcune piante e animali dovranno spostarsi verso Nord in acque e climi più freschi. Tuttavia, siccome il Mar Mediterraneo è in misura variabile un sistema chiuso, non possono andare molto a Nord, spiega Lionello. “Sono bloccati”, afferma.
Ciò significa che il Mediterraneo potrebbe diventare “inabitabile” per gli esseri umani nel corso di questo secolo? Forse, affermano alcuni scienziati, almeno in alcune parti della regione. Ma oltre alla questione della sopravvivenza in termini assoluti, molte attività nella regione potrebbero diventare impossibili da assicurare sotto il profilo finanziario, ivi comprese le abitazioni nelle zone costiere, le vendemmie annuali e le infrastrutture turistiche.
Le maggiori temperature creano di per sé gravi rischi per la salute umana, soprattutto per le comunità che non hanno accesso all’aria condizionata. Uno studio del 2021 pubblicato sulla rivista Climate and Atmospheric Science prevede che le popolazioni nel Nord Africa e nel Medio Oriente possano dover far fronte a ondate di calore “super estreme” con temperature pari o superiori a 56 °C per varie settimane su base annua entro il 2100.
“Se la temperatura raggiunge i 50 ºC nelle aree urbane, è di fatto semplicemente impossibile farvi fronte”, ha dichiarato Tramblay, che ha partecipato allo studio del 2021.
Una temperatura estiva di 37 °C potrebbe diventare la norma in alcune aree della Spagna, della Turchia e dell’Egitto. Attualmente, gli abitanti possono aspettarsi circa un mese all’anno con tali temperature. Entro il 2050, tale situazione potrebbe durare per due mesi, afferma la società di consulenza McKinsey & Company. Un rischio permanente riguarda la tutela del clima Mediterraneo che è alla base della fama della regione.
Tutti questi effetti sembrano spingere la regione a divenire sempre più un luogo inospitale (specialmente per quanto riguarda la produzione di prodotti alimentari).
Culla con molte bocche da sfamare
Le attività agricole sono fonte di sostentamento per quasi tutta la vita umana nel Mediterraneo. Alcune specie vegetali sono veramente legate in modo indissociabile alle culture che le coltivano. Basti pensare al vino in Francia, prodotto sulla costa mediterranea storicamente caratterizzata da un clima temperato. Oppure al grano in Egitto, in cui aish, termine arabo colloquiale che significa “vita”, viene spesso preferito al termine khobz utilizzato in un registro più formale.
Le piante di grano non possono tuttavia crescere senza acqua, per cui sono necessari i sistemi di irrigazione o le precipitazioni. Attualmente, la regione del delta del Nilo è ancora sede del 65% di tutta l’agricoltura dell’Egitto e, ciononostante, l’impatto della siccità in tale paese e in altre parti del Mediterraneo è in aumento. Ciò è in parte dovuto alle maggiori temperature che causano un’evaporazione più rapida dell’acqua dal terreno e dalla vegetazione. “L’aria più calda riduce maggiormente l’umidità del suolo”, afferma Lionellod.
Sameh Abd-Elmabod, agronomo del centro di ricerca nazionale dell’Egitto, osserva che le decisioni sull’utilizzo del suolo possono potenzialmente aggravare i problemi causati dal clima. Nel suo paese natale, l’Egitto, l’espansione delle aree urbane sta portando all’occupazione della principale area agricola del paese. Il delta si trova a Nord del Cairo, città con oltre 21 milioni di persone. Nel 2019, Abd-Elmabod e i suoi colleghi hanno segnalato sulla rivista Journal of Environmental Management che il boom dell’espansione urbana avvenuto tra il 1972 e 2017 ha divorato oltre 1.700 chilometri quadrati di terreni ricchi di carbonio e produttivi dal punto di vista agricolo. “Con la perdita dei terreni agricoli più fertili, perdiamo stock di carbonio del suolo”, afferma, “e perdiamo la possibilità di assorbire diossido di carbonio con le coltivazioni”.
La tendenza ha altresì forzato gli agricoltori egiziani a coltivare terreni di qualità inferiore, portandoli sulla strada dell’insostenibilità.
Area coltivata del delta del Nilo nel luglio 1984 e nell’agosto 2021. Attualmente, la regione del delta del Nilo è ancora sede del 65% di tutta l’agricoltura dell’Egitto e, ciononostante, l’impatto della siccità in tale paese e in altre parti del Mediterraneo è in aumento. Immagini dell’osservatorio sulla Terra della NASA.
Abd-Elmabod, che lavora anche presso l’università di Siviglia in Spagna, paragona i terreni produttivi a un conto bancario. Con una gestione corretta, i terreni ricchi pagheranno dividendi sotto forma di buoni raccolti negli anni a venire. I continui ritiri (ad esempio, “tassando eccessivamente” il terreno con colture che potrebbero non essere adeguate in ambienti aridi) potrebbero tuttavia portare a una drastica riduzione dei rendimenti.
Nelle aree del Mediterraneo in cui le colture sono coltivate con l’acqua piovana, le precipitazioni invernali più concentrate e intense attese dalle previsioni climatiche privano probabilmente i terreni degli elementi nutritivi fondamentali, afferma Abd-Elmabod. Le piogge torrenziali lasciano dietro di sé terreni poveri di elementi nutritivi e in “fallimento”, incapaci di sostenere l’agricoltura come facevano una volta.
Secondo un’altra ricerca, la biodiversità del suolo, che comprende tutto (dai microbi invisibili agli insetti e ai lombrichi), sta perdendo vitalità nel Mediterraneo e potrebbe portare tale area fondamentale nella produzione di prodotti alimentari verso il completo collasso. Tali specie ignorate che vivono nel suolo lo areano, scompongono gli elementi nutritivi e preservano un delicato equilibrio chimico che tiene lontani le gravi infestazioni e il degrado.
Sotto un altro punto di vista, la perdita di umidità del suolo potrebbe portare a cicli di siccità che si rigenerano continuamente. La minore evaporazione dell’acqua causata dalle temperature che arrostiscono il suolo riduce la quantità di acqua piovana che può ripristinare tale umidità, il che a sua volta aumenta le siccità.
Una possibile soluzione per l’adattamento a tale situazione consisterebbe nell’introduzione di colture adatte alle siccità. Tale transizione è già iniziata in alcuni segmenti del settore enologico francese, afferma Tramblay, con il passaggio da parte dei viticoltori a varietà di vite più resistenti.
“La quantità di denaro in gioco è considerevole”, aggiunge Tramblay. “Dobbiamo adattarci e cambiare il modello d’impresa. Penso che sia questa la priorità principale”.
In uno studio del 2020 pubblicato sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, i ricercatori hanno illustrato il modo in cui i cambiamenti climatici potrebbe influire sui vigneti e quali cambiamenti dovrebbero essere apportati. In alcuni casi, ciò potrebbe significare coltivare uva Mourvèdre anziché Merlot o Cabernet Sauvignon. Hanno inoltre rilevato che coltivare varie qualità di uva potrebbe migliorare la resilienza e aiutare i coltivatori a evitare le perdite di raccolto dovute a fattori climatici.
Culla in cui si inasprisce la concorrenza per l’acqua
I problemi al ciclo idrologico portano anche ad altre conseguenze, segnatamente per i poveri che dipendono dall’agricoltura per il loro sostentamento. Soluzioni come l’irrigazione possono costituire solo rimedi temporanei (e in alcuni casi controproducenti) per far fronte alla crescente aridità. “Sono estremamente numerosi i motivi alla base del peggioramento della crisi idrica”, ha affermato Cramer a Mongabay. “Molti sistemi agricoli attuali non sono in realtà resilienti nei confronti dei cambiamenti climatici”, afferma in modo analogo a quanto illustrato nella relazione dell’IPCC incentrata sull’adattamento, del febbraio 2022.
L’irrigazione può costituire una soluzione di ripiego per disporre di acqua a sufficienza al fine di ottenere qualche raccolto in più dai suoli più aridi. Le conseguenze di più lungo periodo potrebbero comportare un calo più marcato delle risorse idriche della regione e un accumulo del sale nel suolo (effetto che ha provocato il collasso delle civiltà dell’antica Mesopotamia).
“Se si verificano maggiori episodi di siccità, sarà necessario ad esempio estrarre una maggiore quantità d’acqua dai fiumi per irrigare le colture”, afferma Tramblay. “Così facendo però si abbasserà anche il livello dei fiumi”.
Sarà quindi minore la quantità d’acqua disponibile per il funzionamento dell’ecosistema, aggravando l’impatto che i cambiamenti climatici stanno avendo con l’aumento della temperatura e del fenomeno della desertificazione. “A un certo punto, tali strategie non funzioneranno più”, aggiunge Tramblay, “sarà impossibile fare fronte alle necessità”.
I ricercatori, e forse il buon senso, sono da tempo in favore di un utilizzo più efficiente delle risorse idriche volto a fornire all’agricoltura la possibilità di resistere in un futuro che si prospetta più caldo a livello globale. L’aumento del ricorso all’irrigazione, d’altro canto, potrebbe invece incoraggiare una gestione idrica inefficiente.
“È molto rischioso”, afferma Lionello parlando dell’irrigazione utilizzata in modo incontrollato per sopperire alla necessità di adattamenti sul piano agricolo. La disponibilità di acqua in abbondanza può attualmente portare a utilizzare più acqua del necessario per “colture o pratiche di allevamento che non sono sostenibili sul lungo periodo”.
“È necessario ottimizzare i consumi” ha aggiunto.
Il ricorso all’irrigazione come mezzo di sostegno per pratiche non sostenibili costituisce un esempio di adattamento inadeguato, contro i quali l’IPCC ha messo in guardia, in quanto tali strategie riescono solo a peggiorare la situazione. In alcune aree del Mediterraneo, gli agricoltori che operano su piccola scala e per fini di sussistenza possono risentire di tali approcci imprudenti.
“Prendere in considerazione solo l’irrigazione non costituisce una strategia né permanente né sostenibile”, afferma Lisa Schipper, ricercatrice del centro sui cambiamenti ambientali presso l’università di Oxford nel Regno Unito. Per risolvere i problemi associati ai cambiamenti climatici sarebbe opportuno disporre di una panoramica più ampia sulle condizioni che causano vulnerabilità ai cambiamenti climatici.
I viticoltori francesi e i coltivatori di grano in Egitto devono entrambi far fronte a cambiamenti radicali imminenti causati dai cambiamenti climatici. Nei loro settori profondamente diversi sono necessarie decisioni complesse: nel caso della Francia, le decisioni determineranno il futuro di un motore economico centenario, mentre le decisioni prese dagli addetti in Egitto potrebbe fare letteralmente la differenza tra la vita e la morte.
Culla di disparità, culla di conflitti
L’area mediterranea racchiude su scala più piccola le disuguaglianze economiche e sociali presenti a livello globale. Una ricchezza considerevole è riscontrabile in parte delle coste in luoghi come ad esempio la Francia meridionale e il principato di Monaco, mentre i piccoli agricoltori e i centri urbani affollati faticano a sopravvivere in altre parti.
“I piccoli agricoltori del delta del Nilo, sono molto più a rischio per le conseguenze di tali cambiamenti rispetto alle persone in contesti simili che si trovano nel delta del Po o nel delta dell’Ebro [in Spagna]”, afferma Cramer. “A fronte di un cambiamento ambientale della medesima entità, sono sostanzialmente più vulnerabili le persone del Sud rispetto a quelle delle aree settentrionali”.
Come illustrato nella relazione dell’IPCC del febbraio 2022, la popolazione mondiale non sarà esposta allo stesso modo ai rischi legati ai cambiamenti climatici. “Si tratta di un altro punto di non ritorno”, dice Tramblay. “Significa che le conseguenze delle calamità naturali stanno divenendo sempre più significative”.
La preoccupazione per l’aggravamento degli impatti e la capacità delle persone di adattarvisi in base alla loro situazione economica ha dato vita a un acceso dibattito riguardo al fatto che i cambiamenti climatici possano scatenare conflitti regionali o eventi di migrazione di massa delle persone dalle parti meno industrializzate del Mediterraneo a quelle più ricche.
L’IPCC ritiene che i cambiamenti climatici non causino in modo diretto i conflitti ma la relazione del gruppo fa notare che gli effetti causati da temperature più elevate e il modo in cui vi si fa fronte possono creare le condizioni per un aumento dei conflitti. Il modo in cui i cambiamenti ambientali (e, in particolare, i cambiamenti climatici) possono causare conflitti è una questione riguardo la quale gli scienziati non sono ancora giunti a una conclusione. Nelle regioni più orientali del Mediterraneo, una complessa serie di circostanze interconnesse e gli effetti che queste ultime hanno avuto tra la fine degli anni 2000 e i primi anni del decennio successivo nella cosiddetta Primavera araba, contribuiscono a dimostrare l’elevata vulnerabilità di molte fasce della società.
Nel 2015, il climatologo Colin Kelley, che allora lavorava a Santa Barbara presso la University of California, ha pubblicato uno studio nel quale ha esaminato con i suoi colleghi il ruolo che le siccità generate dai cambiamenti climatici possono avere avuto nello scoppio della guerra civile siriana nel 2011. Tale conflitto tuttora in corso ha obbligato 6,8 milioni di persone a fuggire dalla Siria, cui si aggiungono 6,7 milioni di sfollati interni.
Per la ricerca, il team di Kelley composto di scienziati che si occupano di fenomeni fisici e sociali hanno analizzato i singoli fattori alla base della guerra. In Siria si è registrata una siccità negli anni ’90, afferma Kelley, che non ha portato a tensioni sociali ma, tra il 2007 e il 2010, vale a dire il triennio con la peggiore siccità di sempre, i raccolti di grano nella Siria Nord-orientale sono stati un “totale fallimento”, afferma Kelley. “È stata una situazione senza precedenti”.
Prima di allora, altri eventi avevano già portato la Siria sull’orlo del conflitto. In seguito alla guerra guidata dagli Stati Uniti in Iraq, entro il 2007 sono giunti almeno 1,5 milioni di rifugiati iracheni nei paesi e nelle città della Siria e ciò ha creato instabilità. La popolazione urbana della Siria era già in rivolta, per cui l’afflusso di iracheni ha aggravato il sovraffollamento, i tassi di criminalità e la disoccupazione.
Successivamente, nel 2011, la Primavera araba ha portato venti di cambiamento in un paese che aveva iniziato a manifestare insofferenza nei confronti del governo dispotico di Bashar al-Assad. Quest’ultimo aveva preso le redini del Paese nel 2000 dopo il decesso di suo padre, Hafez, che era stato al potere per 30 anni.
Cramer, che non ha preso parte allo studio, osserva che la relazione ha fatto scalpore tra gli esperti e, a suo avviso, ciò è avvenuto in parte a causa di un fraintendimento: alcuni hanno pensato che i ricercatori fossero giunti alla conclusione che la siccità avesse veramente causato la guerra e la successiva migrazione di massa dei siriani. “Viene spesso interpretata in questo modo”, afferma Cramer. Tuttavia, aggiunge, “non viene in realtà dichiarato in alcun modo che le siccità abbiano portato di fatto le persone a migrare”.
Richard Seager, climatologo presso la Columbia University nonché coautore dello studio, ha dato seguito a quel parere in una dichiarazione effettuata nel 2015. “Non stiamo dicendo che la siccità abbia causato la guerra”, afferma Seager. “Riteniamo che, aggiunta a tutti gli altri fattori che generano tensione, ha contribuito a dare una spinta alla situazione perché degenerasse in un conflitto aperto. Una siccità di tale portata è stata causata molto più probabilmente dalle attività umane in corso che riducono la quantità d’acqua disponibile in tale regione”.
“Si tratta in realtà di un fenomeno complesso: chi fugge veramente a causa dei cambiamenti ambientali?”, si interroga Cramer. “È sempre solo uno dei tanti fattori”.
Alla ricerca di soluzioni
La comprensione di ciò che rende le comunità vulnerabili ai cambiamenti climatici è fondamentale per far fronte agli effetti futuri dei cambiamenti climatici, spiega Cramer. Oltre a tale comprensione, è necessario porre l’accento sullo sviluppo della resilienza al fine di ridurre al minimo o persino eliminare le vulnerabilità, anziché attenderne le conseguenze, aggiunge.
“È essenziale analizzare le regioni interessate dai cambiamenti climatici e capire come risultino destabilizzate sotto tutti i punti di vista (economico, sociale, ecologico)”, afferma Cramer. «Dobbiamo chiederci cosa possiamo fare per aumentare la resilienza in tali paesi, anziché dire “ok, dobbiamo prepararci per i flussi di rifugiati”».
Cramer ha svolto un ruolo di spicco in un’iniziativa analoga all’IPCC denominata “Mediterranean Experts on Climate and Environmental Change” (MedECC). “L’obiettivo è consistito nella creazione di una rete di scienziati provenienti da tutto il bacino del Mediterraneo al fine di elaborare una relazione di ampia portata sui rischi associati ai cambiamenti ambientali…per tutto il Mediterraneo”, afferma Cramer.
La relazione MedECC del 2020 che ne è scaturita si basa su un esame delle minacce affrontate dal Mediterraneo svolto da Cramer e dai suoi colleghi, pubblicato su Nature Climate Change nel 2018. Afferma di sperare che l’individuazione di tali problemi sia un primo passo nell’ottica di trovare soluzioni per la regione.
Il ricercatore osserva che lo studio del 2018 guidato da Cramer ha individuato sfide ma anche opportunità. Lo sviluppo urbano ne costituisce un esempio. “La costruzione di città resilienti sotto il profilo climatico non è necessariamente più costosa della costruzione di città convenzionali”, spiega Cramer. “Se prendiamo in considerazione l’idea dello sviluppo resiliente sotto il profilo climatico e lo applichiamo alla trasformazione delle città, sorgerebbero in tutto il Mediterraneo enormi opportunità su tutte le coste”.
Anche l’agricoltura offre opportunità, afferma Piero Lionello, se agiamo rapidamente. Un rapido passaggio alle colture adatte ai climi aridi potrebbe fare la differenza così come potrebbe farlo la scelta di tipi di agricoltura che si integrino meglio con gli ecosistemi naturali.
“La transizione agroecologica [offre] enormi possibilità [di successo] a livello internazionale”, afferma Cramer. Si tratta di un altro aspetto sul quale spera che MedECC possa svolgere un ruolo rilevante (in veste di ente interlocutore tra gli scienziati, i responsabili delle politiche e la società). Afferma che il gruppo ritiene sostanzialmente che le informazioni possano essere sufficienti a far pendere l’ago della bilancia in favore dell’azione.
“Se la gente fosse pienamente consapevole dei rischi associati ai cambiamenti ambientali”, afferma Cramer, “farebbe sicuramente qualcosa in più per la protezione delle persone”.
Fa comunque attenzione a non sorvolare sulle vere conseguenze cui la regione del Mediterraneo e il mondo dovranno sicuramente far fronte con l’aggravamento dei cambiamenti climatici e di altri cambiamenti ambientali indotti dagli esseri umani. Non c’è tempo da perdere nell’affrontare tali sfide, aggiunge.
“Non ci stiamo adattando in modo sufficientemente adeguato ai cambiamenti inevitabili derivanti dai cambiamenti climatici e stiamo peraltro facendo troppo poco con tutti gli altri fattori quali l’inquinamento o il degrado del suolo e del mare”, afferma Cramer. Tuttavia, aggiunge, “dobbiamo tenere viva la speranza”.
Immagine del banner: raccolta di arance in Sicilia. Immagine di siculodoc tratta da Adobe Stock.
John Cannon è un giornalista della redazione di Mongabay. È presente su Twitter: @johnccannon
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Articolo originale: https://news-mongabay-com.mongabay.com/2022/04/cradle-of-transformation-the-mediterranean-and-climate-change/