- Secondo un nuovo studio, l'aggiunta di ampie distese di aree incontaminate all'attuale rete di aree protette per proteggere metà del pianeta non comporta la tutela di un numero maggiore o la copertura di un range più esteso.
- I ricercatori affermano che è importante non farsi incantare dall'idea della salvaguardia delle aree solamente per la loro estensione o perché sono più semplici da tutelare a livello politico, ma occorre invece dare priorità a queste ultime per le loro caratteristiche e/o perché ospitano delle specie importanti.
- Lo studio ha inoltre rivelato un trend sorprendente: le aree protette del pianeta riescono a tutelare in maniera efficace almeno una parte del range della maggior parte della popolazione mondiali di uccelli, mammiferi e anfibi.
Quante parti della Terra bisogna proteggere per salvare le specie dall’estinzione? Alcuni ambientalisti ambiziosi suggeriscono la metà.
Il noto biologo Edward O. Wilson, ad esempio, nel suo libro “Metà terreno”, sostiene che lasciare metà del pianeta alla natura contribuirebbe a salvare la maggior parte delle specie. Altri ricercatori sono a favore dell’approccio Nature Needs Half restituire metà del pianeta alla natura), tema presente nei documenti politici e di sensibilizzazione: proteggere il 50% della superficie terrestre entro il 2050 “potrebbe contribuire a rendere il pianeta più vivibile per l’uomo”.
Ma quale metà proteggere? Secondo un nuovo studio pubblicato nella rivista scientifica Science Advances il raggiungimento di questo obiettivo tramite la semplice creazione di aree protette di grandi dimensioni non tutelerà la maggior parte della biodiversità.
Queste le parole dell’autore principale Stuart Pimm (professore statunitense di ecologia della conservazione presso l’Università Duke) a Mongabay: “L’approccio Half Earth (metà terra) viene considerato sempre di più, ma ritengo sia pericoloso sollecitare la protezione di aree vaste quando in realtà bisogna proteggere quelle giuste; bisogna salvaguardare le zone in cui sono davvero presenti delle specie invece di disegnare enormi porzioni sulle cartine”.
Pimm, insieme ai colleghi Binbin Li, professore assistente presso la Duke Kunshan University in Cina, e a Clinton Jenkins, ricercatore presso il Brasile dell’Istituto di Ricerca Ecologica (Instituto de Pesquisas Ecológicas o IPÊ), si sono prefissati l’obiettivo di esaminare il modo in cui le attuali aree protette tutelano circa 20.000 specie di uccelli, mammiferi e anfibi.
Hanno anche analizzato quante specie in più verrebbero salvaguardate se le attuali aree selvatiche non protette venissero abbinate a quelle che lo sono per arrivare così a raggiungere per metà l’obiettivo Half-Earth, escluso l’Antartide. Il team ha definito le aree selvatiche come luoghi con popolazioni poco numerose che hanno un impatto minimo sulla natura: si tratta delle cosiddette aree disabitate.
Secondo Pim “L’obiettivo politico più fattibile consisterà nel proteggere le aree che chiamiamo selvagge: aree remote, fredde e aride, in cui vivono pochissime persone”. Pertanto il team ha incluso delle zone con un indice di impronta ecologica inferiore a 3,3 (l’indice misura la relativa influenza umana in una scala da 0 a 50).
I ricercatori hanno scoperto che l’aggiunta di grandi spazi di aree selvatiche alla rete delle aree protette non corrisponde a un maggior numero di specie tutelate o a una copertura di una porzione più significativa del range di una specie. Nel complesso le aree selvatiche non hanno raggiunto i risultati sperati nella protezione delle specie.
Secondo Pimm: “Come abbiamo sottolineato molto attentamente, ci sono importanti ragioni per proteggere i luoghi remoti e di grandi dimensioni, su questo non ci piove. Ma se agiamo solo in questo modo e non ci concentriamo anche sui luoghi meno estesi e particolari, allora non salveremo la biodiversità”.
In India, per esempio, tutelare le zone della catena montuosa dei Ghati Occidentali, dell’Himalaya orientale e delle praterie potrebbe salvaguardare più specie rispetto alla protezione di aree vaste situate nelle zone di maggiore altitudine dell’Himalaya al di sopra della linea degli alberi.
“Ci sono delle ottime ragioni per proteggere anche queste aree (zone dell’Himalaya con un’altitudine più elevata), collegate alla loro importanza per l’acqua. Non si tratta di non farsi incantare dalle aree per le loro grandi dimensioni ma di dare la priorità ad alcune nello specifico perché possiedono delle caratteristiche particolari o perché ospitano delle specie importanti.
William Laurance, ecologista tropicale presso la Australia James Cook University, che non è stato coinvolto nello studio, ha affermato che anche le dimensioni di un’area protetta sono una elemento rilevante. Queste le sue parole a Mongabay: “A parità di altre condizioni, le riserve più grandi sono sempre un vantaggio perché sono più resistenti ai disturbi esterni, conservano delle popolazioni più estese e inclini all’estinzione e riescono a resistere meglio alle vicissitudini ambientali come il cambiamento climatico.
Ovviamente le cosiddette altre condizioni non sono quasi mai alla pari. Gli autori hanno ragione a pensare che se ci si concentra solo sulla creazione di grandi riserve, con lo scopo di salvare metà del pianeta, si sarà costretti a istituirne di nuove in aree con bassa biodiversità, nello specifico in luoghi freddi o aridi: questo è un punto critico”.
Tuttavia, osservando il modo efficace in cui le aree protette salvaguardano la fauna selvatica, per ogni singola specie (procedimento che ha richiesto un’enorme quantità di calcoli), Pimm e i suoi colleghi hanno scoperto un trend sorprendente: i parchi mondiali coprono almeno una parte del range della maggior parte delle specie di uccelli e una parte minore di quello di mammiferi e anfibi.
“Ciò che sorprende è che le aree protette esistenti riescano a tutelare così bene la maggior parte di queste specie”, afferma Jenkins, dell’IPÊ. “Per quanto riguarda gli uccelli, per esempio, circa metà delle specie con il range geografico più piccolo ha una parte protetta fino a un certo punto”.
Noëlle Kümpel, responsabile presso l’organizzazione BirdLife International, che non ha partecipato allo studio, sostiene che è rassicurante vedere che gli sforzi vengono ripagati. In una mail, Kümpel ha affermato che lo studio rivela che una percentuale più elevata di uccelli si trova in aree protette, probabilmente a causa di un’attenta protezione delle IBA (Important Bird and Biodiversity Areas) nei confronti delle specie di uccelli con range piccoli e a rischio estinzione. Tale approccio è stato facilitato dai dati e dalla sensibilizzazione fornita da BirdLife e dai suoi partner.
“Tuttavia, nello studio tutte le specie sono conteggiate allo stesso modo ed è per questo che quelle con un range ampio non danno risultati positivi, dato che il rapporto tra i rispettivi range è quasi fuori dagli schemi”, ha aggiunto. Inoltre, “Dato che è improbabile che sia possibile proteggere tutti i range all’interno delle nuove aree protette, gli sforzi per la conservazione sono necessari anche al di fuori di queste ultime”.
Kümpel concorda sul fatto che l’approccio “Half-Earth” non dovrebbe riguardare solo il raggiungimento di un obiettivo percentuale, ma deve tendere verso “una strategia dove la qualità è più importante della quantità, come precisato da Pimm et al“.
Secondo Pimm, negli Stati Uniti, ad esempio, la maggior parte dei grandi parchi nazionali si trova in zone aride e remote della parte occidentale. “Nella parte sud orientale di trova una grande quantità di biodiversità che non viene protetta adeguatamente”.
Ciò accade soprattutto perché la creazione di aree protette in aree con più persone e potenziale di sviluppo è più difficile.
Pimm afferma che, per fare ciò, è necessaria una volontà politica. “Solitamente i politici vogliono vincere facile. La percentuale della protezione del Paese potrebbe lentamente passare dal 13% al 13,2% e ciò potrebbe salvaguardare molte più specie rispetto a un aumento dal 13% al 15% solo con la tutela di aree remote.
Lo studio ha considerato solo uccelli, mammiferi e anfibi perché, secondo i ricercatori, si stima che la distribuzione di questi gruppi sia relativamente più regolare rispetto ad altri. Non è chiaro se l’inclusione di dati relativi a gruppi come piante ed insetti potrebbe modificare i risultati dello studio.
La protezione delle aree può rivelarsi utile anche per altri scopi oltre che per la tutela della biodiversità, ad esempio per la salvaguardia e la conservazione sia di quest’ultima che dei servizi ecosistemici (ritiene Kümpel), “che non si trovano necessariamente nello stesso posto”, secondo Pimm et al.
“Una volta che avremo esaminato aree rilevanti per la biodiversità, considerare quelle importanti per i servizi ecosistemici potrebbe significare, molto probabilmente, che abbiamo davvero bisogno di tutelare più della metà della terra in qualche modo, attraverso una serie di meccanismi che si aggiungono alla “protezione” formale.
Nota dell’editore: William Laurance è un membro del comitato consultivo di Mongabay.
Citazioni:
Stuart L. Pimm, Clinton N. Jenkins, Binbin V. Li. How to protect half of Earth to ensure it protects sufficient biodiversity. Science Advances, 2018; 4 (8): eaat2616 DOI: 10.1126/sciadv.aat2616