- In molti luoghi, le comunità indigene stanno lavorando per ripristinare le specie di alghe che sono state fonte di cibo tradizionale o parte imprescindibile delle diete tradizionali.
- Dalle fattorie di kelp in Alaska all'educazione comunitaria incentrata sulle alghe nelle Hawaii, i progetti assumono svariate forme.
- Queste comunità indigene enfatizzano la capacità delle alghe e delle piante marine di sostenere l’indipendenza alimentare, la resilienza climatica e le connessioni con la tradizione.
Per i non iniziati, il primo assaggio dell’alga rossa hawaiana conosciuta come limu kohu (Asparagopsis taxiformis) può risultare sgradevole: intensamente ricca di iodio e amara, con tutta l’intensità marina di un’ostrica ma nessuna della sua dolcezza. Malia Heimuli, residente a O’ahu, non la trova appetibile, o “ono” (in hawaiano si utilizza la parola ono per indicare qualcosa “buono da mangiare”). Eppure, le persone più anziane che fanno parte della sua vita non ne hanno mai abbastanza..
«Non sono abituata al suo sapore, ma mia nonna e mia madre ripetono di continuo: “Dammi quest’[alga] ogni giorno”», dice Heimuli ridendo.
C’è una ragione alla base di questo divario generazionale, e Heimuli la conosce bene. Negli ultimi 50 anni, il limu kohu, insieme a molte delle oltre 60 specie di alghe indicate alle Hawaii come limu, è diventato meno comune sulle coste dell’isola a causa di fattori ambientali mutevoli. Con meno limu disponibile, molti membri della generazione di nativi hawaiani più recente sono cresciuti senza imparare gli usi culinari, medici e spirituali di queste alghe.
Qualcosa sta però cambiando, alle Hawaii così come in tutto il mondo. Heimuli è la coordinatrice di un gruppo comunitario chiamato Limu Hui, una partnership o assemblea incentrata sul limu. Con sede presso la comunità no-profit Kuaʻāina Ulu ‘Auamo (KUA), Limu Hui cerca sia di ripristinare la salute delle specie di limu delle Hawaii, sia di trasmettere alle future generazioni le antiche conoscenze sul limu custodite dagli anziani.
Il lavoro di Limu Hui rispecchia una visione molto più ampia: molte comunità indigene stanno lavorando per ripristinare le specie di alghe degradate che sostengono le diete tradizionali (La maggior parte di questi progetti lavora con le alghe, tra cui il limu e il kelp, anche se alcuni includono piante marine). Così facendo, queste comunità stanno ripristinando sia gli ecosistemi che le funzioni culturali tradizionali di queste specie, una pratica nota come ripristino bioculturale.
«Se dovessi elencare gli obiettivi che i vari membri della comunità hanno espresso, la guarigione dai danni della colonizzazione è uno di questi, insieme all’indipendenza e alla sicurezza alimentare», spiega Melissa Poe, scienziato sociale al Washington Sea Grant di Seattle e coordinatrice dell’Indigenous Aquaculture Collaborative Network. Questo network aiuta i gruppi della regione del Pacifico a condividere le informazioni e a sviluppare la comunità. Al momento comprende almeno una dozzina di gruppi che lavorano su qualche forma di ripristino delle alghe, e Poe dice che l’interesse sta crescendo tra gli altri membri del network.
Poe spiega che tale lavoro non solo permette autonomia, ma anche il “risveglio della conoscenza” intorno alla gestione delle risorse da un contesto indigeno: uno che riconosce “i tipi di responsabilità intrinseche e di parentela che i popoli indigeni radicati sul luogo hanno con il loro ambiente”.
Questi progetti prendono molte forme, tra cui l’educazione, il ripristino dell’ecosistema, l’agricoltura commerciale, la ricerca o una combinazione di questi.
A Haida Gwaii, una catena di isole lussureggianti nella Columbia Britannica (Canada), si tratta di educazione e ripristino. Ogni primavera, i subacquei nuotano lungo le coste una volta coperte di foreste di kelp con strumenti alla mano per rimuovere i ricci di mare.
Due secoli senza lontre marine, cacciate per il commercio di pelliccia, hanno lasciato queste coste invase dai ricci, il pasto preferito delle lontre. I ricci di mare si sono nutriti voracemente dell’aptere che tiene il kelp ancorato al fondo del mare, decimando le foreste di kelp di Haida Gwaii. Con il declino del kelp, il popolo Haida affronta anche la scomparsa di molti cibi tradizionali, tra cui l’abalone, che bruca anche sul kelp, e l’aringa che si riproduce sul kelp. Le aringhe depongono istintivamente le loro uova sulle foglie larghe delle foreste di kelp, producendo una delicatezza cremosa e croccante che si gusta sia cruda che cotta.
«Il lavoro che stiamo portando avanti riguarda direttamente la sicurezza alimentare, l’indipendenza alimentare e la resilienza climatica, perché le foreste di kelp sono una combinazione di tutto questo», dice Jaasaljuus Yakgujanaas, biologo esperto in molluschi presso il Council of the Haida Nation che dal 2018 fa parte del programma di recupero del kelp.
A partire dal 2017, la Nazione Haida ha collaborato con Parks Canada per condurre una combinazione di ripristino e ricerca sul loro sito di studio di 3 chilometri (1,9 miglia). I subacquei del progetto rimuovono più del 75% dei ricci a una profondità di 17 metri (56 piedi) o inferiore, oltre a sorvegliare il sito di studio per l’abalone e altre specie e raccogliere campioni per testare la salute dell’ecosistema. Il team ha assistito a risultati incoraggianti: Dopo la rimozione dei ricci nel 2018, i subacquei del progetto sono tornati l’anno successivo e hanno osservato una foresta di kelp in crescita in quei luoghi dove una volta c’era poca o nessuna crescita.
Le foreste di kelp sovrasfruttate diventano “deserti di ricci di mare”. Questi vi hanno proliferato così tanto da non disporre di cibo sufficiente. I ricci entrano in uno stato “zombie” rallentando il loro metabolismo e riassorbendo i loro organi riproduttivi. Questo significa che non contengono uova, un alimento tradizionale ricco di proteine per molte popolazioni indigene, e che è scarseggiato per la Nazione Haida.
Eppure, quest’anno, Yakgujanaas afferma che i ricci che hanno rimosso sembravano più sani, con uova di migliore qualità.
È un segno che il progetto si sta muovendo verso il suo obiettivo di ristabilire l’equilibrio tra il kelp e i ricci, e tra i ricci e la popolazione che li apprezza come fonte di cibo. I subacquei Haida distribuiscono ora le uova alla comunità una volta rimossi i ricci sani.
Con la ricrescita del kelp, la Nazione Haida spera di assistere anche al ritorno degli abaloni. Yakgujanaas sottolinea come gli anziani fossero soliti raccogliere gli abaloni come fonte di cibo affidabile, mentre lei non sia mai stata in grado di farlo in quanto il loro numero è sempre stato troppo basso per una raccolta sostenibile.
Il kelp costituisce la struttura portante degli ecosistemi sani, fornendo cibo, riparo e ossigeno. Il restauro del kelp Haida è quindi guidato dalla consapevolezza del popolo indigeno dell’interconnessione tra alghe sane e salute dell’intero ecosistema.
Si tratta di un tema comune a molti progetti indigeni sulle alghe, indipendentemente dalla forma che assumono.
Sulla costa centrale della Columbia Britannica, la nazione Heiltsuk e gli scienziati della Simon Fraser University hanno condotto una ricerca per capire se la raccolta commerciale delle alghe boa di piume (Egregia menziesii) possa essere sostenibile sia per l’alga che per l’ecosistema che sostiene. Lo studio ha evidenziato che, seguendo le pratiche tradizionali Heiltsuk di raccogliere solo una parte di ogni singola alga alla volta, questa è ricresciuta con più vigore.
«Le persone sono rimaste entusiaste dei risultati ottenuti. Se continuiamo a seguire queste pratiche di raccolta parziale, possiamo raggiungere la sostenibilità proprio come suggerisce la conoscenza Heiltsuk», dice Hannah Kobluk, ricercatrice e PhD presso la Simon Fraser che ha preso parte al progetto. Kobluk spiega come la loro ricerca abbia sottolineato «la ricchezza che deriva dall’attingere a forme multiple di conoscenza, che siano indigene, locali, dai pescatori stessi… tutto rientra in quadro molto più completo».
In Alaska, la Native Conservancy, con sede a Cordova, ha avviato diversi programmi pilota di coltivazione di alghe. L’obiettivo è quello di creare «un’economia rigenerativa dell’alga basata sulla conservazione, il ripristino e la mitigazione, e non un’altra pratica di estrazione di risorse in Alaska», ha detto il fondatore e presidente Dune Lankard, membro della tribù Eyak.
Lankard spera che le loro fattorie di kelp non solo forniscano kelp fresco, congelato ed essiccato per il consumo locale e per gli scambi commerciali, ma che creino anche un riparo dove i salmoni selvatici possano nascondersi dai predatori, così come una superficie su cui le aringhe possano deporre le uova.
La Native Conservancy ha attualmente 9 siti di prova lungo un tratto di oltre 160 km (100 miglia) nel Prince William Sound, dove l’alga cresce attaccata a lunghe linee ancorate, così come una fattoria di prova dove nell’autunno del 2021 l’organizzazione ha disseminato Alaria marginata, Laminaria saccharina e Nereocystis luetkeana.
L’obiettivo è quello di produrre un trinomio di fonti di cibo, prodotti vendibili e lavori stabili per le comunità indigene dell’Alaska. Molti, spiega Lankard, sono i locali che scelgono di andarsene quando raggiungono l’età adulta a causa della mancanza di un lavoro stabile. Questa diaspora ha accentuato la perdita di connessione con l’oceano e con le pratiche tradizionali.
«I popoli nativi sono i guardiani storici e gli amministratori delle loro terre ancestrali e dei corsi d’acqua», afferma Lankard. «Se siamo in grado di costruire un’industria basata su una delle nostre fonti di cibo e modi di vita tradizionali, si aggiungono quegli aspetti culturali, dello spirito e quella relazione con l’oceano».
Questa relazione diventa particolarmente importante quando il cambiamento climatico rientra nell’equazione. Per ciascuno dei gruppi indigeni con cui Mongabay ha parlato, il cambiamento climatico è in cima ai pensieri, in particolar modo la questione di come il riscaldamento delle acque potrebbe danneggiare le alghe che questi gruppi cercano di preservare.
Le alghe potrebbero aiutare a mitigare il cambiamento climatico. Un articolo del 2016 ha stimato che le macroalghe sequestrano ogni anno 173 milioni di tonnellate di carbonio mentre galleggiano al largo per poi affondare nelle profondità oceaniche. Alcuni studi suggeriscono anche che le alghe fungono da tampone contro l’acidificazione dell’oceano, fornendo oasi di sicurezza quando il pH dell’oceano cala. Eppure, allo stesso tempo, le acque più calde e povere di nutrienti che si producono con il cambiamento climatico stanno causando stress a queste specie. Le recenti ondate di calore marine sono state particolarmente devastanti per le foreste di kelp.
Nonostante ciò, vi sono speranza e conforto nella conoscenza tradizionale impiegata da questi progetti.
«In passato ci sono stati svariati millenni di cambiamenti ambientali e climatici. La conoscenza ancestrale ha aiutato le comunità a sopravvivere e prosperare fino ad oggi», spiega Poe. «A volte i membri delle comunità del nostro network utilizzano la frase “guardare al passato per prepararsi al futuro”».
Alle Hawaii, Limu Hui sta aprendo nuovi orizzonti mentre sperimenta metodi di trapianto di specie di limu coltivate in vasche nell’oceano. I membri del gruppo hanno però sottolineato che il vero obiettivo di Limu Hui è incoraggiare le relazioni con il limu stesso.
«L’idea del ripristino del limu non si limita alla sua semplice coltivazione, ma a un percorso volto alla coesione della comunità», dice Wally Ito, co-fondatore di Limu Hui. «Portare i bambini più piccoli fuori di casa e fargli toccare il limu, annusarlo e assaggiarlo. Disponiamo di questo limu gustoso e buono da mangiare, ma non possiamo trasmettere il gusto alla prossima generazione, devono apprezzarlo da soli».
Miwa Tamanaha, ex co-direttrice di KUA e membro fondatore di Limu Hui, ha notato che l’attenzione pubblica per le alghe marine sta crescendo anche al di fuori delle comunità indigene. La recente esplosione della coltivazione delle alghe è un primo esempio. Mentre l’umanità sperimenta una perdita collettiva di biodiversità, habitat e comunità, Tamanaha spiega come questo interesse «sia forse un indicatore di un ribilanciamento della relazione tra ciò che ciascuna delle nostre terre saggiamente dispone per nutrirci, e ciò che noi, a nostra volta, saggiamente abbiamo da offrire loro».
Immagine di apertura :Dune Lankard, fondatore e presidente della Native Conservancy, tiene in mano Laminaria saccharina. Immagine di Ayşe Gürsöz/Native Conservancy.
Claudia Geib è giornalista scientifica con sede a Cape Cod, Massachusetts. Il suo lavoro si focalizza sulla biologia marina, l’ambiente e la fauna selvatica. Altri suoi lavori sono disponibili su www.claudiageib.com e Twitter a @cm_geib.
Citazioni:
Kobluk, H. M., Gladstone, K., Reid, M., Brown, K., Krumhansl, K. A., & Salomon, A. K. (2021). Indigenous knowledge of key ecological processes confers resilience to a small‐scale kelp fishery. People and Nature, 3(3), 723-739. doi:10.1002/pan3.10211
Krause-Jensen, D., & Duarte, C. M. (2016). Substantial role of macroalgae in marine carbon sequestration. Nature Geoscience, 9(10), 737-742. doi:10.1038/ngeo2790
Articolo originale: https://news-mongabay-com.mongabay.com/2022/01/by-cultivating-seaweed-indigenous-communities-restore-connection-to-the-ocean/