- Le foreste di kelp crescono lungo oltre un quarto delle fasce costiere del mondo e costituiscono uno dei maggiori ecosistemi del pianeta sotto il profilo della biodiversità. Questi habitat fondamentali stanno tuttavia scomparendo a causa del riscaldamento degli oceani e di altri effetti causati dagli esseri umani.
- Le recenti scomparse improvvise di vaste foreste di kelp lungo le fasce costiere della Tasmania e della California hanno messo in evidenza quanto poco sapessimo sulla protezione o sul ripristino di tali ecosistemi marini essenziali.
- Gli scienziati stanno cercando nuove modalità per aiutare le alghe kelp a riprendersi ma i successi promettenti su piccola scala devono essere sviluppati in modo considerevole per far fronte alle perdite massicce di kelp in alcune regioni.
- L'interesse a livello globale nello studio delle alghe per fini alimentari, di stoccaggio dell'anidride carbonica e per altri usi può contribuire a migliorare i metodi di reintroduzione delle alghe kelp in natura.
Nascoste sott’acqua, le foreste di kelp crescono lungo oltre un quarto di tutte le fasce costiere del mondo, favorendo una biodiversità ricca a tal punto che il naturalista Charles Darwin ritenne che possa rivaleggiare con le foreste pluviali tropicali. In modo altrettanto invisibile, tali habitat di importanza fondamentale stanno scomparendo a causa del riscaldamento delle correnti oceaniche, dell’inquinamento, delle attività di raccolta eccessive e di altri effetti causati dagli esseri umani.
Sebbene nel corso dei secoli siano state acquisite conoscenze grazie alla coltivazione delle alghe nei paesi che si affacciano sul Pacifico, la diminuzione a livello regionale delle foreste di kelp e le recenti scomparse improvvise da ampie aree in cui un tempo prosperavano tali alghe hanno messo in evidenza quanto poco gli ambientalisti sappiano sulla protezione o sul ripristino di queste foreste sottomarine fondamentali, afferma Karen Filbee-Dexter, ecologa marina della University of Western Australia che studia le ripercussioni dei cambiamenti climatici sulle alghe kelp.
“Le foreste di kelp sono sottostimate e studiate poco rispetto ad altri ecosistemi costieri”, afferma Filbee-Dexter. “Dobbiamo comprenderle meglio. Costituiscono uno degli habitat vegetali per le specie marine più estesi della Terra e i dati mostrano con estrema chiarezza che stanno cambiando in modo veramente rapido”.
I primi campanelli di allarme per i ricercatori sono state le ondate di calore marino che hanno improvvisamente devastato intere foreste di kelp lungo la costa della Tasmania nel 2011 e della California settentrionale nel 2014. Quando i talli e le lamine torreggianti delle alghe kelp sono scomparsi, lo stesso è accaduto per molte specie marine delle quali favorivano il sostentamento. Con la scomparsa di pesci, orecchie di mare e aragoste, hanno dovuto chiudere le attività di pesca commerciale con giri d’affari pari a vari milioni di euro. Inoltre, la perdita di ampie foreste di kelp riduce la protezione offerta alle comunità costiere contro le mareggiate ed elimina un importante pozzo di assorbimento del carbonio. Gli scienziati ritengono che le foreste di kelp del mondo provvedano allo stoccaggio di una quantità di carbonio compresa tra 61 e 268 teragrammi (vale a dire tra 61 e 268 megatonnellate) all’anno.
La buona notizia è che gli scienziati stanno trovando modi per reintrodurre con successo le alghe. Queste metodologie recentemente scoperte devono però essere sviluppate in modo considerevole (e rapido) per compensare le perdite massicce che si sono verificate in alcune regioni, quali l’Australia, la Norvegia, la Nuova Scozia (Canada) e la California (Stati Uniti).
Le sfide della gestione scientifica delle kelp
Le alghe kelp sono state ultimamente al centro di varie notizie a causa della loro notevole capacità di sequestro del carbonio. Finora, la maggior parte dell’attenzione è stata rivolta alle alghe kelp coltivate ma, indipendentemente dal fatto che siano selvatiche o coltivate, ciò che viene scoperto dagli scienziati potrebbe aiutare tutti i tipi di kelp a prosperare in un mondo caratterizzato da rapidi cambiamenti climatici.
Sono oltre 100 le specie di alghe kelp (alghe brune di grandi dimensioni che vivono nelle acque fredde e profonde di tutto il mondo), ma la maggior parte degli studi si sono concentrati finora solo su due varietà: le macroalghe kelp giganti in via di scomparsa che formano volte nell’acqua (Macrocystis pyrifera) e le nereocisti (Nereocystis luetkeana). Tali fitte foreste subacquee possono crescere rapidamente fino a raggiungere i 40 metri di altezza, creando un complesso habitat che parte dal fondale e giunge fino alla superficie del mare.
Alcune delle cause alla base del declino delle foreste sono chiare. Le correnti che riscaldano gli oceani e le ondate di calore marino, ad esempio, portano le alghe kelp, che vivono solitamente in acque fredde, al di fuori della loro zona di comfort da un punto di vista fisiologico se la temperatura dell’acqua supera i 20 °C, nel qual caso muoiono. Lo sviluppo costiero, l’inquinamento e la sedimentazione, che peggiorano la qualità dell’acqua, incrementano le sfide per la loro sopravvivenza. Non è tuttavia sempre chiaro il motivo che porta le kelp sotto stress a scomparire in alcuni luoghi ma a prosperare comunque in altri.
Ciò è dovuto in parte alle difficoltà da superare nello studio di tali foreste. Spesso può essere persino difficile trovarle. In passato le foreste di kelp venivano individuate dalle navi, da piccoli aerei e tramite i satelliti. Con questi metodi non vengono però rilevati molti i dati. Dalla superficie dell’acqua sono visibili solo le alghe kelp che formano una volta e, sebbene le alghe kelp giganti siano perenni, le nereocisti muoiono in inverno per poi ricomparire in estate, il che ne rende difficile l’individuazione. Le kelp possono anche spostarsi: le tempeste di forte entità possono sradicare intere foreste nell’arco di una notte.
È fondamentale disporre di mappe accurate ai fini di una migliore gestione di tali foreste, in quanto offrono avvertimenti sulle foreste in calo e, al contempo, una base di riferimento essenziale per il monitoraggio dei progetti di ripresa e ripristino, afferma la ricercatrice post-dottorato Sara Hamilton che opera a Davis per la University of California. Senza una vera valutazione della situazione, è altresì difficile disciplinare in modo sostenibile la raccolta delle alghe selvatiche svolta per fini commerciali.
In tutto il mondo, secondo i dati del 2019 dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, viene raccolto ogni anno oltre un milione di tonnellate di kelp. Molte di esse, circa il 40 %, sono raccolte al largo della costa del Cile, con le alghe brune selvatiche messe sul mercato per vari fini, quali gli utilizzi in ambito biotecnologico e la produzione alimentare nonché di farmaci e prodotti tessili.
I paesi che regolamentano la raccolta di kelp fissano spesso quantità annue massime di biomassa che può essere raccolta, ma anche le normative possono comportare problemi. Quando Hamilton ha analizzato la gestione dei raccolti di kelp in Cile, California e nella Columbia britannica (Canada), ha rilevato che l’assenza di un inventario delle alghe kelp aggiornato periodicamente in tutte e tre le aree costituisce un “ostacolo significativo” ai fini di una gestione efficace.
“In letteratura sono presenti ottime ricerche incentrate sulla vita delle foreste di kelp ma dobbiamo compiere un ulteriore passo avanti e acquisire conoscenze scientifiche sulle modalità che ci consentono di gestirle efficacemente”, afferma Hamilton.
Ad esempio, in Cile, la raccolta di alghe è disciplinata da una complessa serie di sistemi gestionali comprensivi di aree marine protette in cui è vietata la raccolta, vale a dire aree ad accesso esclusivo controllate da consorzi di pescatori locali, e aree ad accesso libero non protette. Il monitoraggio delle alghe kelp tra i vari raccolti potrebbe non essere sempre accurato, osserva Hamilton.
Inoltre, gli scienziati non sanno di preciso quale sia la quantità massima di alghe kelp che può essere raccolta prima che le foreste si ritrovino troppo indebolite per poter tornare a crescere. Sebbene la quantità di alghe kelp raccolta in California e nella Columbia britannica sia molto inferiore rispetto a quella del Cile, Hamilton afferma che i legislatori in tali aree si basano su autodichiarazioni per le attività di raccolta svolte per fini commerciali, le quali possono non essere affidabili, e tengono traccia in modo solo approssimativo delle attività di raccolta a scopo ricreativo (il che crea lacune considerevoli nei dati) svolte per fini personali.
In modo analogo a quanto concluso dall’analisi di Hamilton, negli Stati Uniti, il dipartimento californiano per la Pesca e la fauna e la flora selvatiche ha pubblicato nel 2022 una relazione sul miglioramento della situazione relativa alle nereocisti e alle kelp giganti comprensiva di raccomandazioni in favore di un monitoraggio più accurato e una migliore comprensione delle ripercussioni delle attività di raccolta come pure dei ruoli dei principali predatori che vivono nelle foreste di kelp. Simili preoccupazioni di carattere ambientale hanno portato a una nuova legge nello Stato di Washington (Stati Uniti) volta a proteggere e ripristinare circa 4.000 ettari di foreste di nereocisti e praterie di zostere marine entro il 2040.
Sfide per la reintroduzione delle alghe
Una cosa di cui sono certi gli scienziati è che è meglio proteggere le foreste di alghe anziché cercare di ripristinarle. Troppo spesso, le iniziative legislative giungono troppo tardi, dopo che le foreste di kelp sono scomparse o hanno subito forti cali.
Le alghe kelp erano già state decimate dalle ondate di calore marino lungo 100 chilometri della costa della Tasmania prima che il governo australiano dichiarasse le foreste di kelp giganti comunità ecologiche in pericolo nel 2012. Inoltre, quest’anno, la pesca a strascico è stata vietata in una parte della costa del Sussex (Regno Unito) solo dopo che le attività di pesca hanno distrutto i banchi di kelp che un tempo prosperavano e depredato le specie ittiche destinate al commercio.
I cambiamenti strategici a livello regionale e locale possono mitigare gli effetti prodotti da raccolti eccessivi di kelp selvatiche, inquinamento, sviluppo di insediamenti urbani lungo le coste, sedimentazione e pratiche di pesca non sostenibili ma non possono però raffreddare gli oceani che si stanno riscaldando.
“Le foreste di kelp costituiscono ecosistemi molto dinamici, produttivi e complessi”, afferma Cayne Layton ecologo marino che opera a Hobart (Australia) presso la University of Tasmania. “Cercare di riprodurle è piuttosto complicato”.
In passato i progetti di ripristino si basavano sulle scogliere artificiali, realizzate con qualsiasi materiale, dai blocchi di cemento agli pneumatici usati e alle piattaforme di trivellazione smantellate, per fornire una superficie cui le alghe possono ancorarsi. Il Wheeler North Reef, una delle scogliere artificiali più grandi del mondo che si estende su 152 ettari, è stato realizzato con roccia di cava per mitigare la perdita di foreste di kelp e specie marine causata dal riscaldamento dell’acqua al largo della costa di San Clemente, nella California meridionale, dovuto ai deflussi provenienti dalla centrale nucleare di San Onofre. Iniziata nel 1998 e completata nel 2021, tale scogliera è ora considerata un successo nella reintroduzione delle alghe kelp.
Lungo la costa orientale della Tasmania (punto nevralgico in cui l’acqua marina si sta riscaldando più velocemente rispetto alla media globale), Layton e il professore Craig Johnson, dell’istituto per gli studi marini e artici della University of Tasmania, stanno focalizzando le loro attività di reintroduzione sulla capacità delle foreste di kelp di resistere alle sfide del futuro. Stanno provvedendo alla “piantumazione” di kelp giganti appena nate ottenute da alghe caratterizzate da una maggiore tolleranza per le acque più calde. “Non si tratta di manipolazione genetica”, osserva Layton. “Stiamo solo individuando gli esemplari di alga gigante che sono per loro natura maggiormente in grado di tollerare [le variazioni di temperatura]”.
Degli oltre 50 genotipi che hanno testato finora, una percentuale compresa tra il 10 e il 15 % riesce a sopravvivere in acque che sono fino a sette gradi più calde rispetto alle acque a 16-17 °C in cui vivono solitamente le kelp. “È alquanto sorprendente il fatto che alcune sopravvivano veramente fino alla temperatura massima registrata per le kelp giganti”, afferma.
I ricercatori hanno iniziato a piantumare queste “super kelp” oltre 18 mesi fa in tre aree diverse di 100 metri quadrati ciascuna. La coltura in laboratorio di migliaia di piccole alghe, ognuna grande circa un millimetro, le successive operazioni di ancoraggio per fissarle a piccole piastre di plastica e, infine, le immersioni per agganciare le piastre alla roccia delle scogliere costituiscono tuttavia un processo che richiede molto lavoro.
L’obiettivo dei ricercatori consiste nel far crescere all’incirca un’alga adulta per metro quadrato (in modo analogo a quanto avviene nelle foreste naturali di kelp giganti della Tasmania). Dal 2020, sono sopravvissuti circa 50 esemplari adulti, che hanno raggiunto i 12 metri di altezza, in due delle tre aree. Layton spera che tali esemplari adulti inizino a provvedere con “vitalità” a produrre in modo naturale giovani esemplari di alghe.
A migliaia di chilometri di distanza, negli Stati Uniti, presso i Friday Harbor Laboratories della University of Washington, la ricercatrice post-dottorato Brooke Weigel sta svolgendo studi sulla temperatura e sulla sensibilità ai nitrati delle popolazioni di nereocisti che vivono nello stretto di Puget.
Sebbene la maggior parte di tali banchi di alghe nello stretto si sia riformata dopo l’ondata di calore marino che ha colpito la costa occidentale degli Stati Uniti nel 2014, secondo i rilevamenti degli ambientalisti, , le nereocisti che si trovano nella zona meridionale dello stretto di Puget hanno subito cali continui significativi. “Sono tutti indizi di fattori ambientali che potrebbero contribuire a tali cali”, afferma Weigel, ma questi indizi ” sono stati scarsamente oggetto di prove sperimentali di laboratorio”.
Weigel sta iniziando la seconda fase della coltivazione in laboratorio di nereocisti microscopiche (note come gametofiti) a varie temperature. Ha rilevato che i gametofiti possono sorprendentemente sopravvivere fino a una temperatura di 20°C (solitamente letale per le alghe kelp adulte). Oltre i 16°C i gametofiti non possono però essere fertilizzati con successo al fine di produrre sporofiti che diano vita a foreste torreggianti.
“È una soglia piuttosto netta”, afferma. Gli ambientalisti “devono sapere se ci sono soglie [di temperatura] per la sopravvivenza e la riproduzione delle alghe kelp quando scelgono i siti per il ripristino delle foreste di kelp”.
Non è ancora chiaro cosa consenta ad alcune alghe di sopravvivere a temperature maggiori. In ricerche precedenti, Weigel ha cercato indizi nei microbiomi, studiando i batteri presenti nello strato di mucillagine che ricopre le lamine delle alghe kelp. Layton sta altresì cercando di risolvere l’enigma della resilienza alla temperatura analizzando il metabolismo e la fisiologia delle kelp: la resilienza ai cambiamenti di temperatura è determinata da variazioni nelle membrane cellulari? oppure nel processo di fotosintesi?
“Si tratta probabilmente di una serie di vari fattori”, osserva.
Le risposte potrebbero essere racchiuse nel patrimonio genetico delle alghe nereocisti, afferma il genetista delle popolazioni Filipe Alberto, della University of Wisconsin-Milwaukee (Stati Uniti). Nel suo “laboratorio forense di kelp”, Alberto analizza il DNA delle alghe raccolte nel Pacifico nord-occidentale. In collaborazione con il Puget Sound Restoration Fund, sta cercando di capire quanto siano diverse le popolazioni a livello genetico, se siano affini e se le variazioni siano da associare ad acque più fredde o più calde. Alberto sta altresì creando una banca del seme per le nereocisti al fine di preservarne la varietà genetica regionale. Invece dei semi, Alberto conserva i gametofiti mantenendoli in uno stato dormiente all’interno di un ambiente a temperatura controllata e con ridotta esposizione alla luce.
“Potremmo non essere più in grado di reinserire questa varietà nei luoghi da cui proviene”, afferma Alberto. Se però i gametofiti non vengono conservati ora, sarà impossibile reintrodurre tale varietà qualora le alghe kelp scomparissero.
Alberto e i suoi collaboratori della University of California di Santa Cruz e del California Conservation Genomics Project sperano di completare presto il sequenziamento del genoma delle nereocisti. Tale genoma di riferimento costituirà una risorsa per gli scienziati in cerca di variazioni genetiche che potrebbero aiutare le kelp a superare i cambiamenti ambientali futuri.
Sfide per la diffusione
Con l’aumento delle perdite di foreste in tutto il mondo, gli scienziati avvertono che le alternative praticabili per il successo delle azioni di ripristino varia da regione a regione. Ciascun’area marina senza alghe presenta sfide particolari: può esservi ad esempio una presenza eccessiva di ricci di mare o un habitat marino degradato, l’acqua può essere di qualità scadente o caratterizzata da riscaldamenti di varia entità.
“Siamo guidati da un insaziabile desiderio di comprendere la distribuzione e le tendenze delle alghe kelp”, afferma Helen Berry, ecologa marina presso il dipartimento di Stato di Washington per le Risorse naturali. “Di fatto non c’è una tendenza univoca: stiamo perdendo in alcuni luoghi e vincendo in altri. È fondamentale tenere conto di questo per gestire le alghe kelp selvatiche”, afferma.
Per aiutare i ricercatori e gli scienziati che si occupano di alghe kelp a trarre insegnamenti dalle reciproche attività, lo scienziato marino Aaron Eger, della University of New South Wales di Sydney (Australia), ha analizzato oltre 250 attività finalizzate alla reintroduzione di alghe kelp. Ha poi creato una banca dati open-source, consultabile in base al tipo di problema (ad esempio l’eccessiva presenza di ricci di mare), per rendere più facile la consultazione dei metodi più adatti a seconda dei problemi e delle circostanze. Inoltre, grazie a finanziamenti e una collaborazione di notevole entità del The Nature Conservancy, Eger è divenuto uno degli autori principali del The Kelp Restoration Guidebook. “Abbiamo a disposizioni molti strumenti per individuare e superare questi seri problemi che ci troviamo ad affrontare”, afferma.
Lo studio di Eger che combina i risultati di diverse ricerche ha dimostrato che è stato più probabile conseguire successi quando gli “eventi di disturbo” in eccesso, quali l’attività eccessiva dei ricci di mare, sono stati rimossi e quando i siti di piantumazione si trovavano vicini ad altre foreste di kelp.
La sua analisi ha altresì evidenziato una sfida inaspettata: le resistenze sul piano giuridico. La maggior parte delle normative sull’ambiente costiero è stata progettata per proteggere ciò che è già negli oceani, spiega Eger. Tali normative impediscono spesso di rimuovere ciò che è già presente, come i ricci di mare, o di aggiungere oggetti artificiali, come le strutture di sostegno per la crescita dei nuovi esemplari di alghe kelp.
Il punto centrale della ricerca di Eger è costituito dal fatto che la maggior parte degli sforzi di ripristino (62%) sono stati svolti da membri del mondo accademico, su aree con una superficie inferiore a un ettaro (80%) e in archi di tempo inferiori a due anni. “Per il ripristino scalabile di intere foreste, è necessario andare oltre l’ambito accademico. Abbiamo bisogno di partenariati”, sottolinea.
Tra questi partenariati, uno è guidato dalla SeaForester, azienda attiva nel campo della reintroduzione di alghe che collabora con operatori di tutto il mondo che si occupano del ripristino di foreste kelp utilizzando una soluzione innovativa chiamata “ghiaia verde” (green gravel).
Tale soluzione non necessita di sommozzatori che svolgono operazioni gravose con giovani esemplari di alghe kelp posti su piastre di plastica o supporti di altro tipo. Le alghe kelp vengono invece “seminate” su rocce di piccole dimensioni e gettate successivamente nell’oceano da una barca. Le kelp crescono autonomamente nell’arco di qualche anno. “Si tratta comunque di un processo estremamente veloce, se confrontato con il tempo che ci impiega a crescere una foresta [sulla terra ferma]”, osserva Thomas Wernberg, ecologo marino della University of Western Australia, nonché cofondatore di Green Gravel Action Group, rete internazionale di ricercatori che stanno testando tale metodo.
Inizialmente sviluppata in Norvegia, la ghiaia verde ha riscosso successo in vari progetti pilota, ivi compreso il ripristino della Laminaria ochroleuca lungo le coste del Portogallo. Sono attualmente in corso test con ghiaia su cui sono state piantumate alghe kelp in vari contesti oceanici e costieri in Europa, America del Nord e Australia.
“Questa idea ha suscitato molto entusiasmo ma non si tratta di una panacea”, avverte Wernberg, che opera altresì in qualità di capo-ricercatore presso l’Institute of Marine Research in Norvegia. Non ha funzionato per esempio per un progetto nella fascia costiera della California dove una mareggiata ha fatto rotolare via tutta la ghiaia su cui erano state piantumate le alghe kelp.
“Dobbiamo ancora trovare un rimedio alla causa principale [della perdita di kelp]. In molti casi si tratta di un degrado dell’ambiente marino indotto dagli esseri umani”, osserva Wernberg, e ciò richiede il sostegno del pubblico e delle autorità.
Un modo per conseguire tale obiettivo consiste nella creazione di legami tra le foreste di kelp e servizi ecosistemici preziosi quale il sequestro del carbonio, afferma Filbee-Dexter, membro del Green Gravel Action Group. Sebbene le foreste di kelp possano non essere tanto affascinanti per le persone quanto le barriere coralline, l'”economia blu” si sta sviluppando grazie a investitori pronti a trarre vantaggio dall’utilizzo delle alghe marine per i crediti di carbonio nonché quali fonti alternative di proteine o biomassa per i combustibili”. Lo sviluppo di misurazioni più accurate del potenziale di stoccaggio di carbonio delle kelp selvatiche potrebbe offrire loro le tutele di cui necessitano. “Le persone prestano attenzione a ciò che le interessa”, afferma.
Il settore della coltivazione delle alghe potrebbe altresì favorire l’acquisizione di conoscenze scientifiche fondamentali riguardanti la morfologia, la genetica e le necessità nutritive ottimali delle alghe kelp selvatiche, afferma Helen Berry. Mette tuttavia in guardia sul fatto che confrontare le alghe kelp coltivate con gli esemplari selvatici può essere difficile, così come lo è “confrontare una piantagione di alberi di Natale con una foresta antica”.
I ricercatori che si occupano di kelp coltivate possono comunque essere in grado di colmare le lacune nelle conoscenze riguardanti il ruolo svolto dalle kelp selvatiche nello sviluppo della biodiversità. Una differenza principale tra le kelp coltivate e selvatiche consiste ad esempio nel punto in cui crescono nella colonna d’acqua, spiega Carrie Byron, professoressa associata della School of Marine and Environmental Programs presso la University of New England (Stati Uniti). Le kelp selvatiche sono ancorate al fondale marino, mentre le kelp coltivate sono sospese al di sopra di esso su fili o piattaforme.
Grazie ai finanziamenti del The Nature Conservancy, Byron sta esaminando la possibilità che le kelp coltivate (nonostante tali differenze strutturali) offrano un habitat adeguato per la medesima diversità di specie. Sono necessari ulteriori dati di riferimento per determinare la biodiversità costitutiva di un ecosistema sano generato dalle alghe kelp.
Scegliere il cambiamento
I cambiamenti non rappresentano sempre qualcosa di negativo, afferma Filbee-Dexter. “Una delle attività svolte dagli ecologi consiste nella comprensione del modo in cui funzionano gli ecosistemi”. Nel caso delle popolazioni di kelp alterate dalle attività umane, ciò significa stabilire se tali cambiamenti porteranno a un ecosistema resiliente che, nonostante funzioni diversamente, offre comunque servizi ecosistemici preziosi e analoghi. Descrive l’esempio delle kelp artiche che ha studiato, le cui popolazioni potrebbero alla fine essere sostituite da specie adatte ad acque più calde.
I ricercatori devono anche cimentarsi con l’etica dell'”evoluzione assistita” o con la manipolazione genetica vera e propria per aiutare le alghe kelp a continuare a crescere in condizioni sempre più avverse. “In passato i tentativi in questo senso non sono stati positivi e non hanno portato a risultati molto buoni” , afferma Filbee-Dexter.
Un tipo di cambiamento cui Cayne Layton vorrebbe assistere è l’industrializzazione della reintroduzione delle alghe kelp. Ritiene che le aziende che coltivano le kelp, i vivai per i giovani esemplari di kelp noti come sporofiti e le attività di pesca dei ricci di mare potrebbero essere solo alcuni dei modi di generare proventi grazie alle kelp (denaro che potrebbe essere poi reinvestito nelle attività di tutela degli ecosistemi delle kelp selvatiche).
“Non si tratta solo di denaro utilizzato a fondo perduto per ripristinare le foreste di kelp” afferma Layton. “Si tratta di attività che offrono molti vantaggi”.
Immagine del banner: la kelp gigante (Macrocystis pyrifera) è una magroalga perenne considerata un ingegnere ecosistemico delle fasce costiere con acque temperate nelle quali cresce. Diversamente dalle nereocisti (Nereocystis luetkeana), caratterizzate da un ciuffo di fronde, le kelp giganti hanno fronde lungo tutto il tallo. Immagine di Claire Fackler, CINMS, NOAA tratta da Flickr (CC BY 2.0).
Audio correlati: podcast di Mongabay con Dune Lankard, fondatore e presidente di The Native Conservancy, che parla dei progetti pilota di coltivazione delle kelp nello stretto di Prince William in Alaska e del modo in cui i progetti dovrebbero creare un’economia favorevole alla rigenerazione delle kelp basata sulla conservazione, sulla mitigazione e sul ripristino. Ascolta qui il podcast in inglese:
Riferimenti:
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Articolo originale: https://news-mongabay-com.mongabay.com/2022/07/scientists-strive-to-restore-worlds-embattled-kelp-forests/