- Un nuovo rapporto del Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici evidenzia l’importanza dell’uso del territorio per contrastare i cambiamenti climatici.
- Gli esperti sostengono che il ripristino e la protezione delle foreste potrebbero rivelarsi componenti essenziali nelle strategie per attenuare i cambiamenti climatici, ma i governi devono fermare la deforestazione e il degrado forestale a favore di aziende agricole e allevamenti.
- Il rapporto IPCC riconosce anche il ruolo delle comunità indigene.
- Le foreste gestite dalle comunità indigene spesso subiscono una minore deforestazione e immettono minori quantità di anidride carbonica nell’atmosfera.
Secondo il Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici, o IPCC, l’utilizzo che facciamo del territorio del pianeta, foreste comprese, farà un’enorme differenza nel determinare il corso dei cambiamenti climatici in futuro.
L’8 agosto l’IPCC ha pubblicato una sintesi del suo rapporto speciale sui cambiamenti climatici e il territorio. Secondo gli esperti, il rapporto rafforza l’importanza di considerare l’uso del territorio per affrontare in prima linea l’innalzamento globale delle temperature dovuto all’aumento di anidride carbonica e altri gas serra nell’atmosfera.
Il 1 agosto, durante una conferenza stampa, Katharine Mach, ricercatrice sul clima e professore associato dell’Università di Miami, ha dichiarato: “Le opzioni a disposizione in termini di protezione, ripristino ed espansione delle foreste sono disponibili immediatamente, collaudate e, spesso, molto vantaggiose in termini economici. Inoltre, allo stesso tempo, apportano benefici ad aria, acqua, biodiversità, salute del suolo, alla resilienza climatica, a tutto.”
Tutte insieme, le foreste sottraggono circa un terzo delle emissioni di CO2 globali e, mettendo in atto i giusti piani di protezione e ripristino, è addirittura possibile contenere i cambiamenti climatici, sostiene Mach. È importante, dunque, preservare e riportare le foreste nei luoghi dove si estendevano in passato, come è necessario ridurre la quantità di combustibili fossili che bruciamo per produrre energia.
“La relazione tra combustibili fossili e foreste è di tipo ‘yes-and’”, aggiunge Mach.
Tuttavia, si è rivelato difficile arginare l’ondata di deforestazione e andare contro gli interessi finanziari di guadagni a breve termine.
“Per questo bisogna assicurarsi che le foreste abbiano più valore se lasciate al loro posto che non se abbattute per far pascolare il bestiame, piantare coltivazioni o raccogliere legname,” sostiene David Festa, vicepresidente senior per gli ecosistemi dell’Environmental Defence Fund.
In questo modo di pensare riecheggia l’osservazione del famoso biologo E.O. Wilson in occasione di un’intervista alla BBC: “Distruggere la foresta pluviale per introiti economici è come bruciare un dipinto del Rinascimento per preparare il pranzo.”
Nel corso dell’incontro, Carlos Nobre, scienziato del clima senior presso l’Università brasiliana di São Paolo, ha affermato che questo è vero in particolare per l’Amazzonia brasiliana. La pressione per il legname, l’agricoltura, l’allevamento di bestiame e le attività di estrazione nel blocco di foresta pluviale più vasto rimasto sulla Terra ha portato un’impennata dei tassi di deforestazione del 40 percento negli ultimi 3 anni.
“C’è davvero da preoccuparsi,” avverte Nobre, aggiungendo che una deforestazione persistente in Amazzonia potrebbe trasformare irreversibilmente la foresta pluviale in una savana che rilascia decine di miliardi di tonnellate di CO2 nell’atmosfera.
E infine, conclude: “la foresta amazzonica potrebbe trovarsi molto più vicina a un punto critico di quanto pensassimo.”
Charlotte Streck, fondatrice del gruppo di esperti Climate Focus, durante l’incontro ha avanzato l’ipotesi che una soluzione, in parte, potrebbe provenire da un nuovo modo di produrre il cibo. Infatti, Streck ha evidenziato che il numero sempre maggiore di capi di bestiame, necessari a soddisfare il consumo globale di carne, produce il 15 percento delle emissioni di gas serra di tutto il pianeta, così come la maggior parte del settore agricolo globale.
“Ciò significa che una delle azioni più efficaci che possiamo compiere a favore del clima è modificare la nostra alimentazione,” spiega Streck. “La buona notizia è che, in Europa e negli Stati Uniti, le abitudini alimentari stanno già cambiando. Il consumo di carni rosse è in calo, specialmente nei centri urbani.”
Ma per avere dei cambiamenti duraturi a tutela delle foreste, bisogna prendere in considerazione e affidarsi all’esperienza, alla conoscenza e alla competenza delle popolazioni che nelle foreste ci abitano, ha aggiunto Victoria Tauli-Corpuz, relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti degli indigeni.
“Nessuno comprende il valore delle foreste più degli indigeni e delle comunità locali. Essendo esperti, spesso guidati da centinaia di anni di conoscenza, siamo gli unici ad essere adatti a gestire, proteggere e ripristinare le foreste di tutto il mondo,” sostiene Tauli-Corpuz.
Le ricerche hanno dimostrato che le foreste gestite da comunità indigene hanno tassi di deforestazione inferiori e rilasciano minori quantità di CO2 rispetto a quelle gestite dai governi, e il nuovo rapporto IPCC riconosce, per la prima volta, il ruolo che queste popolazioni potrebbero avere nella lotta ai cambiamenti climatici.
“Finalmente, i più alti scienziati riconoscono ciò che abbiamo sempre saputo,” ha dichiarato un gruppo di comunità e organizzazioni indigene provenienti da 42 paesi in risposta al rapporto pubblicato l’8 agosto.
Tuttavia, un punto dolente nella promozione di una relazione così vantaggiosa è rappresentato dal riconoscimento dei diritti terrieri degli indigeni in tutto il mondo. Gli autori del rapporto sottolineano che queste comunità, per tradizione, si prendono cura di più di metà della superficie terrestre, sebbene i governi riconoscano loro il diritto di proprietà di appena una decimo di tutte le terre globali. Inoltre, gli stessi autori sostengono che questi gruppi dovrebbero essere coinvolti nei processi decisionali su ciò che accade nei loro territori, ovvero ciò che si chiama consenso libero, anticipato e informato (FPIC).
Lottare per il diritto di dire la propria su quanto accade a un pezzo di terra, però, spesso è controverso e pericoloso. Il 30 luglio, Global Witness ha pubblicato un rapporto che documenta la morte di 164 “attivisti per l’ambiente e il territorio” nel 2018, una media di più di tre a settimana.
Un altro studio, pubblicato il 5 agosto sulla rivista Nature Sustainability, ha rivelato che un terzo degli omicidi avvenuti tra il 2014 e il 2017 per le risorse naturali, vedeva coinvolti interessi legati all’agricoltura o alle attività estrattive.
“Nessuno conosce i conflitti che entrano in gioco tra cibo, combustibili e foreste meglio delle popolazioni indigene e delle comunità locali,” conclude Tauli-Corpuz. “Ci troviamo sempre nel mirino per conflitti legati al territorio, specialmente quando si tratta di foreste.”
L’immagine del banner mostra un agricoltore che controlla la nuova piantagione di palme da olio che confina con la sua terra in Perù ed è di John C. Cannon/Mongabay.
John Cannon è uno scrittore dello staff di Mongabay. Si può contattare su Twitter: @johnccannon
Citazioni:
Butt, N., Lambrick, F., Menton, M., & Renwick, A. (2019). The supply chain of violence. Nature Sustainability, 2(8), 742-747. doi:10.1038/s41893-019-0349-4
Articolo originale: https://news-mongabay-com.mongabay.com/2019/08/forests-and-forest-communities-critical-to-climate-change-solutions/