- Restano soltanto il 23% della terra selvaggia terrestre e il 13% della terra selvaggia marina, stando alle nuove mappe dell’impatto umano sul mondo.
- Il 70% della terra selvaggia rimanente si trova in cinque paesi: Russia, Canada, Aus-tralia, Stati Uniti e Brasile.
- Secondo gli autori di questa serie di studi, la protezione della terra selvaggia dovrebbe passare in prima linea nell’agenda della conservazione.
Le nuove dettagliate mappe della terra selvaggia sia terrestre che marina rivelano uno spettacolo alquanto sconfortante. In una serie di studi recenti, infatti, un gruppo di ricercatori guidati dall’ecologista James Watson della Wildlife Conservation Society e della Università del Queensland in Australia hanno analizzato la superficie terrestre alla ricerca di attività umane significative, quali strade e ferrovie, terreni a pascolo e terreni coltivati, e centri popolati, ad una risoluzione di un chilometro quadro (0,4 miglia quadrate). Negli oceani, hanno valutato l’attività della pesca così come gli effluenti provenienti dai fertilizzanti e dalle rotte commerciali.
I risultati di tale ricerca sono sconcertanti, come risulta da un articolo pubblicato il 31 ottobre sulla rivista Nature: soltanto il 13% degli oceani mondiali, infatti, risulta privo dei segni dell’attività umana. La percentuale di natura terrestre intatta non è tanto più alta: senza contare l’Antartide, rimane soltanto il 23% della natura selvaggia terrestre. Comunque sia, al di là di ciò che Watson chiama ‘storia dell’orrore’ delle terre vergini, vi è ancora la potenzialità di salvare ciò che resta e con questo la vita sulla Terra. Ha affermato Watson in una intervista a Mongabay: “la scienza ha dimostrato chiaramente che le ampie regioni intatte sono l’opzione più facile per la conservazione”.
Agli albori della ricerca, uno studio del 2016 in cui si confrontavano quei cambiamenti con il passo della crescita demografica ed economica indicava che non stavamo perdendo la terra selvaggia così velocemente come si era creduto. I ricercatori conclusero allora che secondo tali risultati incoraggianti , la specie umana stava usando le risorse in maniera efficace.
Ma, mentre gli scienziati da uno studio approfondito dei dati hanno prodotto mappe che dimostrano come parchi e riserve salvaguardino efficacemente la biodiversità e gli spazi selvaggi dall’impatto umano e dall’entità dell’estensione umana negli oceani, Watson ha affermato che ciò in realtà prova “quanto poco sia rimasto”. D’altronde, altre ricerche hanno dimostrato che la terra selvaggia intatta ha un ruolo chiave nell’attenuare le conseguenze del cambiamento climatico, dal momento che agisce come oasi di riparo dall’influenza umana per le specie vegetali ed animali permettendo al contempo di mantenere intatte anche le riserve di carbone.
Tuttavia, fa notare Watson, l’obiettivo di proteggere le specie a rischio domina spesso le discussioni sulla conservazione tanto da trascurare il bisogno di risparmiare le ultime porzioni di natura selvaggia terrestre. Eppure, secondo lui, la perdita delle aree selvagge è altrettanto grave quanto la perdita delle specie.
Ribadisce infatti Watson: “È possibile avere in programma entrambe le priorità, essendo entrambe assolutamente importanti poiché trascurandole si finirebbe col perdere tutto. Se si vuole sostenere la biodiversità del futuro occorre avere luoghi intatti”.
Allo stesso tempo precisa però che non basta designare solo una percentuale del mondo come aree protette.
Watson e colleghi hanno dichiarato ad inizio anno che probabilmente un terzo delle aree protette mondiali non stavano riuscendo a tenere a freno l’impatto umano. Infatti uno studio del 2016, ha altresì rivelato che, nonostante l’aumento delle aree protette tra il 1993 e il 2009, il mondo ha perso una porzione di terra selvaggia grande quanto l’India, ossia circa 3,3 milioni di chilometri quadri (1,27 milioni di miglia quadrate).
Watson conclude: “la comunità della conservazione deve avere più frecce nel suo arco”.
E aggiunge: ‘Tali strategie possono comportare il delegare alle comunità indigene la salvaguardia delle foreste che abitano. Secondo gli studi, la presenza di gente all’interno di un appezzamento di terreno non preclude di classificarlo come terra selvaggia; si punta semmai alla ricerca di livelli considerevolmente più alti di attività umana. Dice ancora Watson: la legislazione o un intervento fermo e deciso da parte delle compagnie private per liberare le loro catene di distribuzione dalla deforestazione potrebbero anche essi essere potenti strumenti per evitare il ‘primo taglio’ critico delle aree di natura selvaggia. In molti casi, interventi quali strade o miniere scatenano una cascata di cambiamenti irreversibili nei luoghi selvaggi. Afferma Watson: “La terra selvaggia non può essere restaurata”.
E aggiunge:”Tale perdita rispecchia l’atto conclusivo dell’estinzione delle specie. I valori veri sono persi e non ritornano nemmeno se lasciati stare”.
Inoltre, il 31 ottobre, separatamente da questa ricerca, la Wyss Foundation ha devoluto 1 miliardo di dollari alla conservazione del 30 per cento della superficie e dei mari terrestri entro il 2030 attraverso la loro campagna per la Natura. Facendo eco all’invito di Watson a un attacco diversificato, la Wyss Foundation insieme ad altri partner tra cui la Nature Conservancy e la National Geographic Society ha in programma di investire in progetti locali per rinforzare la protezione delle terre a livello globale.
Ha dichiarato in un’intervista il fondatore della sopracitata fondazione nonché filantropo Hansjörg Wyss, “Ritengo che per affrontare la crisi della conservazione globale, occorre fare molto di più per supportare quelle iniziative locali che conservano le aree delle trust pubbliche, permettendo così a tutti la possibilità di conoscere ed esplorare le meraviglie della natura”.
In vista della imminente conferenza internazionale sulla biodiversità a Sharm El Sheikh, in Egitto, e sul cambiamento climatico a Katowice, in Polonia, a detta di Watson è questo il momento giusto per concordare sul bisogno di proteggere la natura selvaggia globale definendo ‘obiettivi chiari’ per il raggiungimento di tale traguardo.
E aggiunge: “occorre proprio un cosiddetto ‘momento parigino’, quando cioè le nazioni si riuniranno per impegnarsi al cambiamento”, riferendosi con ciò agli accordi climatici firmati dalle Nazioni Unite nella capitale francese nel 2015, occasione vista come momento di spartiacque in cui gran parte del mondo si unisce almeno nel riconoscimento dei passi da fare per minimizzare l’aumento delle temperature globali.
La soluzione potrebbe essere tanto semplice quanto permettere alle regioni ‘più selvagge’ di mantenere il selvaggio che hanno. Al di fuori dell’Antartide e degli alti mari governati internazionalmente, il 94 per cento della natura selvaggia rimanente si trova solo in 20 paesi mentre il 70 per cento è concentrato soltanto in cinque paesi: Russia, Canada, Australia, Stati Uniti e Brasile.
Watson afferma: “Questi paesi dovrebbero esserne fieri, possono infatti guidare il mondo nella conservazione di quelle aree che sono rimaste per gran parte immuni dall’impatto umano”.
Tale responsabilità si estende in effetti al di là dei loro confini fino alle acque internazionali, dimora di quasi due terzi dell’ultima natura selvaggia marina e luoghi vitali di rifugio per alcuni principali predatori oceanici, dichiara Watson. La salvaguardia di queste zone rimaste intatte comporta altresì l’accordare alla natura selvaggia la sua giusta importanza per la vita sulla terra.
E ancora: “ se non riconosciamo che c’è un problema, rischiamo di perdere tutto”.
Immagine di apertura: una tartaruga marina; a cura di Belle Co.
JJohn Cannon fa parte del team di scrittori di Mongabay di base nel Medio Oriente. Lo si può seguire su Twitter al seguente indirizzo: @johnccannon
Citations
Jones, K. R., Klein, C. J., Halpern, B. S., Venter, O., Grantham, H., Kuempel, C. D., … & Watson, J. E. (2018). The location and protection status of Earth’s diminishing marine wilderness. Current Biology, 28(15), 2506-2512.
Jones, K. R., Venter, O., Fuller, R. A., Allan, J. R., Maxwell, S. L., Negret, P. J., & Watson, J. E. (2018). One-third of global protected land is under intense human pressure. Science, 360(6390), 788-791.
Venter, O., Sanderson, E. W., Magrach, A., Allan, J. R., Beher, J., Jones, K. R., … & Levy, M. A. (2016). Sixteen years of change in the global terrestrial human footprint and implications for biodiversity conservation. Nature Communications, 7, 12558.
Watson, J. E., Shanahan, D. F., Di Marco, M., Allan, J., Laurance, W. F., Sanderson, E. W., … & Venter, O. (2016). Catastrophic declines in wilderness areas undermine global environment targets. Current Biology, 26(21), 2929-2934.
Watson, J. E., Venter, O., Lee, J., Jones, K. R., Robinson, J. G., Possingham, H. P., & Allan, J. R. (2018). Protect the last of the wild. Nature, 563, 27-30.
Articolo originale pubblicato in inglese l’1 Nov. 2018.